domenica 17 dicembre 2017

Downloading Nancy (J. Renck, 2008)

La trama di Downloading Nancy, diretto da Johan Renck, è molto essenziale, sebbene maltrattata, sezionata e ricucita in modo da perdere ogni linearità. Il film, basato su fatti realmente accaduti, racconta il tormentato percorso esistenziale di Nancy Stockwell, alle prese con un matrimonio pressoché inesistente ed un grave disturbo della personalità, che la costringe a compulsivi atti di autolesionismo (impossibile non pensare, qui, a film come: La pianista, Nymphomaniac o Secretary). L'incontro su Internet con un sadico, disposto ad assecondare il desiderio perverso di Nancy, sembra poter alzare la posta in gioco e determinare la svolta fortemente voluta dalla protagonista.
     
Renck realizza un lavoro molto interessante, perché riesce anzitutto a costruire due mondi speculari: quello matrimoniale di Albert e Nancy, e quello trasgressivo di Nancy e Louis, che a un certo punto s'intersecano. L'uno è il negativo dell'altro. Louis tiene al guinzaglio un cane e desidera Nancy; Albert, al contrario, tiene al guinzaglio Nancy e vuole stare a "giocare" coi suoi amici e coi suoi "giocattoli": simulazioni e simulacri iperreali d'un mondo molto più complesso. La fragile membrana che divide i due mondi è lo schermo d'un computer, sulla scrivania di lei, la dimensione delle chat, che alla fine diventa una sorta di snodo sociale ed emotivo per tutti i protagonisti. L'immagine intera sembra così restituire il complesso lavorio della psiche, che prova a mettere ordine tra le pulsioni umane elementari.

Al centro della riflessione del regista, ci sono una serie di questioni. Quella più esplicita, probabilmente, riguarda il rapporto ambiguo tra sesso e potere, per certi versi inevitabile quando si parla di relazioni sado-masochistiche. Qui è possibile assistere a uno degli sviluppi più incisivi e disturbanti riguardanti il rapporto amore-morte che sia mai apparsa sul grande schermo. Ciò vale sia per la messa in scena, sia per l'impatto emotivo che il film riesce a suscitare, soprattutto in alcune sequenze.

Sullo sfondo c'è il "soffocante" (parole della protagonista) matrimonio tra Nancy e Albert, che si trascina via con la monotonia d'un paesaggio invernale. Non a caso, il freddo e la neve, che nell'estetica del cinema contemporaneo rimandano alla stasi, alla paralisi, o fanno presagire la morte, sono dappertutto. Albert, il marito di Nancy, si lava continuamente le mani. Sembra il segno, la metafora più evidente del suo disinteresse per Nancy, la quale accetterebbe anche dei rapporti sessuali "normali" con il marito, se solo questi le mostrasse una qualche attenzione.

Ma il tema contenitore, quello che - a mio avviso - racchiude tutti gli altri, è un altro, e potrebbe essere riassunto in una frase che viene riportata esplicitamente nel film: non ti rendi conto del valore di ciò che hai, fino a quando non lo perdi. Le articolazioni di questo concetto sono molteplici: i piaceri della segretezza, la solitudine e il doppio, l'assenza che amplifica il desiderio, il dolore che anticipa il godimento. Per capirne la portata, si può ricordare la sequenza in cui Nancy chiede a Louis di fare la cosa più cattiva e i due, semplicemente, di baciano. O ancora il passaggio in cui lei gli dice che in Cina ci sono due tipi di alimenti per cani: quelli per i cani da compagnia, e quelli per i cani da mangiare. 

Nancy vuole essere mangiata, torturata, uccisa. S'infligge tagli e sofferenze in modo compulsivo, e ne prova piacere. Confessa a Louis di avere scoperto questo "talento" da bambina, grazie alle attenzioni particolari di uno zio. Le cicatrici, reali e simboliche, sono sempre presenti nel film: ognuno ne ha, anche la pellicola stessa che è suturata maldestramente. E si ripetono, si moltiplicano, sono seriali, si tramandano (come sembrerebbe suggerire il finale aperto del film).

C'è un'opposizione, una tensione latente in Downloading Nancy, che attraversa ogni sequenza; un'opposizione tra realtà e desiderio. Nancy non ha mai paura. Sta male, ma non ha paura, e vive tutto quasi con rassegnata consapevolezza. Anche la terapia psichiatrica. Non c'è rimedio. Anche quando si tratta di mostrarsi al marito in preda agli spasmi di un orgasmo rubato allo schermo del computer. Albert deve constatare con Louis che l'accesso al suo mondo non prevede alcuna password. Louis può scaricare (di qui il titolo del film) e stampare il carteggio tra lui e Nancy e consegnarlo ad Albert. Lì, sulla carta, nella Terra di mezzo, c'è la moglie. Non resta che leggere e provare a capire. Ma è tardi.         

Downloading Nancy è un film "estremo", cioè - come recita il dizionario - "che è o rappresenta il termine ultimo, in senso locale o temporale, di qualcosa". Di "termini ultimi", il film ne sfiora parecchi. Lo fa con straordinaria abilità e competenza. In questo, aiutato dalla straordinaria interpretazione di Maria Bello alias Nancy Stockwell. Nonostante i temi trattati, il regista non concede nulla agli stereotipi di genere o alla calligrafia, né all'estetica dell'erotismo, che qui viene rappresentato come una sorta di bisogno fisiologico, né all'empatia o al racconto. Quest'ultimo assomiglia ad un rapporto di polizia, e viene martoriato da un montaggio asimmetrico e da una fotografia verdastra che allude a certi acquari guasti, ad una sala operatoria, o al pallore di Nancy.

Un lavoro notevole da tenere in grande considerazione. Presentato al Sundance Film Festival del 2008. 4/5

Il trailer del film

sabato 13 maggio 2017

La danza della formica (T. Cariello, 2015)

"La letteratura è il non scritto di cui lo scritto è un richiamo o, se vogliamo, un'ombra; [...] la letteratura è una mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è desiderio di "un altro ancora", perché quello che c'è sulla pagina non basta, non può essere tutto. [...] La letteratura non è fatta di parole, ma di tutto il silenzio che certe parole scritte lasciano sospettare e inducono ad indagare". Questo è quanto scrive Nicola Gardini, nel suo bellissimo ed eccentrico: Lacuna. Saggio sul non detto (Einaudi, 2014). E a questo ho pensato, tra le altre cose, nel leggere il romanzo d'esordio di Tiziana Cariello, La danza della formica (Europa Edizioni, 2005).

Si tratta delle vicende d'una giovane giornalista palermitana, la quale viene incaricata da un settimanale cittadino di occuparsi di un'inchiesta molto delicata; un'inchiesta riguardante alcuni fenomeni di corruzione e abuso perpetrati da alcuni professori di una prestigiosa università di Nairobi, in Kenya, sulle loro studentesse (credo sia proprio il tema dei professori corrotti e immorali e, più in generale, il mondo dell'università ad aver attirato la mia iniziale curiosità). Cora, la protagonista del romanzo, accetta con entusiasmo l'incarico. Ciò le consentirà di fare un viaggio in Africa, che non è solo geografico, ma anche (soprattutto?) esistenziale.

La storia è raccontata bene, con descrizioni molto realistiche e dettagliate. Alcuni temi, poi, hanno certamente richiesto un'approfondita documentazione: la medicina legale, la biologia dei felini, ecc. Eppure, a dispetto della precisione, sembra sempre che manchi qualcosa. È una narrazione che abbonda di omissioni più o meno esplicite. La poetica del quotidiano, che Tiziana Cariello evoca, pare in realtà celare questioni più profonde, allusioni nascoste, un altrove che può essere scabroso, o più intimo, e che non trascura nemmeno il dato sociologico. Proprio queste lacune sono alla base del "desiderio" che accompagna il lettore nel seguire le vicende del libro, e ne costituiscono un innegabile pregio.

Bello l'espediente di tentare una narrazione polifonica, che affolla la lettura di prospettive anche molto diverse tra loro, le quali danno vita ad un intreccio che le cuce in modo efficace. Prevale, comunque, il female gaze, quello sguardo "al femminile", che permette al romanzo di emanciparsi da certa stereotipata letteratura d'inchiesta (molto evidente, ad esempio, è l'affetto dedicato a tutte le figure femminili del romanzo). Lo stile, inoltre, sembra rimandare a certe voci della letteratura del Nord Europa. Una sorta di paradosso, considerato che il romanzo comincia a Palermo (per una volta, non raccontata con le solite, stanche categorie meridionalistiche) e si conclude a Nairobi. 

Potrei riassumere l'idea che mi sono fatto della scrittura di Tiziana Cariello, definendola una "letteratura esperienziale", in cui sono, per l'appunto, più importanti i vissuti, piuttosto che l'indagine in sé. Quest'ultima sembra più che altro un pretesto per il viaggio esotico dentro e fuori la protagonista. Il titolo stesso, che credo (l'autrice non lo spiega) rimandi al fenomeno etologico della spirale della morte delle formiche, è la minaccia di una tragica catastrofe che nel romanzo avrà degli esiti imprevisti.   

Le vicende potevano tranquillamente svolgersi anche in Italia, e temo che proprio dall'Italia partano alcune riflessioni "sociologiche" dell'autrice. La verosimiglianza del racconto può anche avere qualche punto di cedimento nella traslazione all'interno della cornice africana; ma - come scrive ancora Gardini - in letteratura "il realismo (...) non è altro che un patto di mutuo soccorso e di reciproca legittimazione tra gli elementi portanti di uno stesso racconto; (...) il realismo è un sistema di "rapporti funzionali" tra le cose scritte, e non un insieme di dati la cui "realtà" trovi riscontro al di fuori del testo". L'importante - egli continua - è che il lettore sia "tirato" dentro il mondo del testo. "Gli eventi e i personaggi, infatti, per quanto capaci di divertire e affascinare, servono a esprimere idee, o - se si preferisce - ipotesi di mondo o, ancor meglio, (...) una "mentalità"". Tiziana Cariello c'è riuscita. E se la prima creazione del lettore, nell'atto di leggere, è un autoritratto (ibidem), nel mio caso questo autoritratto è stato assai utile.

martedì 2 maggio 2017

Klip (M. Milos, 2012)

Klip (2012), di Maja Milos, è il film più desolato, deprimente e senza uscita sulla gioventù contemporanea che mi sia capitato di vedere. Un ritratto generazionale, che assomiglia tragicamente a un mattatoio sociale. 

Un inizio abbastanza scioccante, e siamo subito immersi in una sorta di dimensione parallela, fatta di scatti e riprese con gli smartphone, che documentano la vita di alcune liceali serbe (una, in particolare), in una Belgrado divisa tra gli eccessi delle feste dei millenials e le macerie (non solo fisiche) di una guerra ancora dolente.

La storia dell'esperienza giovanile, si sa, almeno a partire dalla seconda metà del Novecento, è anche storia di eccessi, di musica, droga e sesso (si legga, per una bella ricostruzione delle subculture giovanili spettacolari tra il 1950 e il 2000, il libro di Pedretti e Vivan, Dalla Lambretta allo skateboard, Unicopli). Ciò che, tuttavia, denuncia il film della Milos è l'assenza, qui, di una narrazione che faccia da pretesto all'eccesso, il nichilismo della fine della storia, e - aggiungo io - anche la mancanza di un'estetica del nulla (di cui, peraltro, esistono fulgidi esempi). Il film, infatti, non cela bruttezze d'ogni tipo, anche a costo di negarsi in quanto cinema, di tralasciare la mediazione "poetica" e farsi etnografia (cfr. la Fig. 1).      


Fig. 1 - Post-estetica
Etica ed estetica sono due aspetti spesso complementari nella tradizione classica, e qui ritornano. Al brutto rappresentato sullo schermo si accompagna l'a-moralità (non l'im-moralità, però) dei personaggi, che agiscono senza pretesti, senza moventi. L'amore e la violenza sono senza segno. I protagonisti non sembra che siano in grado di compiere delle scelte, sembrano paralizzati in un eterno presente, e incapaci di sopportare la vita anche nelle cose più piccole (ma ci sono anche quelle grandissime). La regia non formula ipotesi esplicite, pur nondimeno sembra delinearsi una diagnosi impietosa della ristrutturazione neocapitalista della Serbia del dopoguerra. Di qui, come ci ha insegnato il vecchio Durkheim, la deriva anomica degli individui e (quasi) il loro "suicidio" sociale. 


Fig. 2 - Compulsioni

E l'amour? L'amore è sesso (con alcune sequenze molto esplicite nel film), che viene ripetuto compulsivamente, mimando l'estetica delle porno cam, e agito senza un motivo preciso, o come esito dell'uso di sostanze psicoattive. In una sequenza molto significativa, un giovane continua a leggere le notifiche del suo telefonino, mentre una delle protagoniste gli pratica una fellatio (cfr. la Fig. 2). Nessuno dei due sembra essere presente a se stesso/a. Insomma, il sesso non solo non è amore, ma prescinde dall'altro, è sia un rituale sia uno specchiarsi (ovviamente, anche sullo schermo dello smartphone [cfr. la Fig. 3]). E se - come diceva Lacan - non esiste "rapporto" sessuale, qui non esiste però neanche il desiderio.


Fig. 3 - Riflessi su specchi

I corpi sono il centro indiscusso del film. Ed è perché i corpi, nella società contemporanea, dopo la fine dei movimenti, sono diventati una frontiera di resistenza. Sono testi che provano ad articolare una qualche forma di pratica rivoluzionaria, pur essendo minacciati da un biopotere che - come voleva Foucault - ne vorrebbe disciplinare gli ultimi spasmi e le residue energie. Nel film, i corpi dei giovani si mostrano, si fotografano, si filmano continuamente, ma la guerra sembra perduta, mentre i corpi dei padri letteralmente muoiono. Gli adulti, soprattutto gli insegnanti, sembrano zombie, svuotati (incapaci?) di qualsiasi responsabilità nei confronti degli adolescenti.  

Un finale ambiguo non sembra concedere molte speranze allo spettatore e, soprattutto, agli adulti di domani. Le ragazze studiano, non a caso, pedagogia. Quasi una distopia. 3/5

Il trailer del film

martedì 18 aprile 2017

Babadook (J. Kent, 2014)

Tra le principali sfide della psicoanalisi vi è quella di riuscire a confrontarsi, elaborare ed incorporare il negativo (Janigro, Psicoanalisi, Mimesis, 2017) e di accettare l'idea che la vita umana non aspira necessariamente al suo bene (Salatino, Lo spettatore arreso, Doppiozero). La psicoanalisi è un percorso in cui il paziente viene posto di fronte ai termini antitetici di un conflitto radicato nell'uomo, che nella seconda topica freudiana, ad esempio, è rappresentata dalla dialettica tra Es, Io e Super-Io, e diventa - nel Freud più maturo - lo "scandalo" delle pulsioni fondamentali di Eros e Thanatos, su cui ritorneranno Lacan e altri.

Ciò che accade in Babadook (2014) di Jennifer Kent è esattamente questo: un confronto con il negativo che sembra fuori di noi, mentre in realtà è lo straniero che è già in noi, nelle nostre stanze chiuse, nelle nostre paure più o meno confessabili. Naturalmente, non si tratta di un tema nuovo nella storia del cinema horror, che la regista infatti omaggia con riferimenti e citazioni che vanno dal Nosferatu di Murnau ai bagliori pop di Mario Bava, e dal Wiene del Dr. Caligari fino a Kubrick e Craven (cfr. le Figure 1 e 2). Il lavoro della Kent si propone più di altri come un film-saggio, che adotta un metodo scientifico e ha la lucidità di chi non ha bisogno del colpo di teatro per catturare lo spettatore. Così, durante il film, abbiamo quasi l'impressione di osservare l'inconscio al lavoro, come in un resoconto psicanalitico; quest'ultimo, già di per sé, dotato di un certa letterarietà (Janigro, cit.). Va osservato, per inciso, come lo stesso setting psicanalitico sembri evocare la sala cinematografica, nel suo essere contemporaneamente luogo di libertà e protezione, che rende possibile sperimentare e gestire l'esperienza del negativo, del male, del dolore, trovandosi al sicuro.

Fig. 1 - Da Caligari...
Fig 2 - ... a Babadook
Il meccanismo che innesca la storia sembra essere a prima vista un lutto: Amelia (la bravissima Essie Davis) perde il marito in un incidente stradale, mentre questi la sta accompagnando all'ospedale per dare alla luce il figlio Samuel (l'inquietante Noah Wieseman). La colpa è servita. Ma è un altro fatto ad aprire una fessura, una crepa (non solo metaforica [cfr. la Fig. 3]) dalla quale entrerà il negativo, e in cui non manca un'allusione di tipo sessuale. Sì, perché sono passati sette anni, e Amelia è segnata dalle rughe, è stanca ed è senza un compagno, ha dedicato la vita al figlio e ora si ritrova adulta, e comincia a intravedere il limite. Come scrive la Janigro: "solo il corpo segna il confine, segnala il limite. Così, le molte tappe che allontanano dall'infanzia, il farsi grandi, l'avvicinarsi all'invecchiamento diventano occasione di analisi". E diventano anche l'occasione per questo film, che è una vera e propria seduta psicanalitica, in cui la protagonista impara lentamente a fare i conti con un rimosso che è durato a lungo, ed è metaforicamente confinato in uno scantinato chiuso da tempo, e al quale il bambino non ha accesso.

Fig. 3 - Il male entra da fessure ed aperture

Questa è la lettura più immediata della pellicola, alla quale però si possono affiancare altre piste d'indagine più profonde. E anche in questo caso, ci può essere d'aiuto Freud. Ma il Freud più maturo, quello di Al di là del principio di piacere (una tappa quasi obbligata, insieme all'interpretazione che ne ha dato Lacan) e de Il disagio della civiltà.  

Nel primo caso, entrano in scena assieme la pulsione erotica e quella di morte. Il corpo, i corpi, il desiderio sessuale hanno un ruolo non secondario nel film. Da antologia, la sequenza in cui Amelia si masturba con un sex toy, ma è interrotta dal figlio terrorizzato proprio un attimo prima del climax, lasciando il desiderio insoddisfatto, asintotico e pronto a ritornare. C'è anche un collega che la corteggia garbatamente, ma l'uomo vede frustrati tutti i suoi tentativi d'accesso alla donna. Sembra così di toccare con mano il concetto di desiderio, al quale si contrappone il godimento, la jouissance di cui ha parlato Lacan nella sua gigantesca rilettura di Freud (Salatino, cit.). Abbiamo, dunque, una triade molto interessante: il desiderio, rappresentato da Amelia; il godimento, rappresentato dal mostro; e il piacere, il cui significante è il piccolo Samuel, nella terra di mezzo tra questi due poli. Desiderio e godimento, a un certo punto, si fondono. Amelia, infatti, abita la jouissance, quando il mostro le entra dentro, con effetti devastanti, eccessivi, dolorosi.

La seconda pista è quella psicosociale. Essa ha anzitutto a che fare con l'incontro con un perturbante (das Unheimliche, nel lessico freudiano), che oggi è sempre più pervasivo. Al punto che - come scrive Nicole Janigro - "la vulnerabilità dell'uomo contemporaneo [...] diventa estrema nell'esposizione alla relazione, esperienza inscindibile dalla normale infelicità umana". In altre parole, la presenza dell'altro oggi è una sorta di trauma, ed il cinema che - come la psicoanalisi - vive d'immagini ne assorbe i tratti. È una lettura, questa, che mutuo da Siegfried Kracauer (Da Caligari a Hitler, 1947), il quale vide riflesso nel cinema espressionista tedesco degli anni Venti i rapporti sociali ed economici e l'inconscio collettivo della Germania di Weimar che di preparava all'esperienza Nazista. La coerenza con l'impianto estetico espressionista dal quale sembra emergere Babadook mi sembra, a questo punto, emblematica (cfr. le Figure 1 e 2).

Fig. 4 - La magia delle emozioni...

Ma s'intravede qui un livello ancora più astratto, anticipato nella storia della psicanalisi dal Disagio della Civiltà, in cui si discute del passaggio dall'io al noi: impresa tutt'altro che semplice da portare avanti dal punto di vista della teoria psicologica. Io qui rimanderei alla dialettica (già in Hegel) tra famiglia e Stato, in cui non sembra esistere la sintesi costituita dalla società civile. Vediamo così Amelia entrare in conflitto con la polizia, i servizi sociali, la scuola e le amiche: istituzioni e agenti di socializzazione al contempo. È una società senza empatia, meccanica e diffidente, mascherata ed egoista.

Non restano, allora, che le (forti) emozioni dei protagonisti. Per Sarte, infatti, l'emozione è "una risposta alle difficoltà del mondo", in cui entra in gioco anche la magia (non a caso praticata dal piccolo Samuel [cfr. la Fig. 4]). Ma l'emozione c'è quando ci crediamo veramente, tanto da indurre il sintomo, le "turbe corporali", come voleva Lacan (cfr. la Fig. 5).


Fig. 5 - Sintomi e turbe corporali

Babadook è girato e recitato molto bene, ha il pallore della protagonista, non esagera con gli effetti speciali e, attraverso un lavoro straordinario, sa creare disagio sin dai primi fotogrammi ed una certa paura più avanti. A conferma che si tratta della metafora di una seduta dall'analista, disagio e paura sembrano tuttavia scemare in anticipo. Paradossalmente, stiamo peggio all'inizio del film e non dopo, quando invece nel canone del cinema horror abbiamo, in genere, il massimo della tensione, prima della risoluzione definitiva. Come nella terapia psicoanalitica, i problemi qui, invece, non hanno una soluzione definitiva. Piuttosto, anche grazie a un pizzico di magia (o arte, come voleva lo stesso Freud), il paziente impara a convivere con i suoi mostri e col mostro che è egli stesso... ma anche tutti gli altri suoi simili. 4/5

QUI LA VIDEO-RECENSIONE

giovedì 13 aprile 2017

Che cosa sa Facebook di noi?

Che cosa sa Facebook di noi? Mi sono fatto un "dataselfie" e vi racconto cosa ho scoperto…

Ecco il link al video: https://www.youtube.com/watch?v=wdotN1gpByk

Il libro di Giuseppe Riva sui selfie di cui si parla nel video è questo: https://www.amazon.it/dp/B01M1OWWE5/ref=dp-kindle-redirect?_encoding=UTF8&btkr=1

L'app Dataselfie si può scaricare qui: https://dataselfie.it/#/download


mercoledì 12 aprile 2017

Antares (G. Spielmann, 2004)

Tre storie s'intrecciano in un anonimo condominio della periferia austriaca, appese a un destino ch'è figlio della relazione tra caos e necessità. Vari personaggi si muovono in bilico tra la tragedia e il ridicolo. E breve, quasi naturale, è il passaggio dall'amore alla violenza. Le relazioni tra amanti sembrano riecheggiare quell'epigrafe posta da Musil all'inizio de I turbamenti del giovane Törless: "Noi togliamo stranamente valore alle cose non appena le pronunciamo. Crediamo d'esser scesi sul fondo degli abissi, [...] c'illudiamo d'aver scoperto una massa di tesori, e quando torniamo alla luce non abbiamo portato con noi che pietre false e pezzetti di vetro. Eppure, nell'oscurità, il tesoro conserva immutato il suo luccichio".

Götz Spielmann ci conduce con la freddezza entomologica del suo sguardo di vetro in una periferia urbana fotografata con tonalità livide (opposte a quelle di Marte-Ares, il pianeta rosso e dio della guerra), attingendo ad un'estetica che abbiamo imparato a conoscere in altri registi del nuovo cinema austriaco come Ulrich Seidl o Michael Haneke. 

Il film è forte (soprattutto nelle crude scene di sesso), ma atono. Nonostante le situazioni raccontate, non c'è mai l'urlo: la guerra, appunto (di qui, probabilmente, il titolo: Antares, l'anti-Ares, il rivale di Ares); e non c'è alcuna concessione al romanticismo. È silente (manca quasi del tutto il commento musicale extradiegetico) e quasi anestetizzato (torna spesso il motivo dell'ospedale). Gli individui sono rinchiusi, addomesticati e svuotati come i loro animali domestici o quelli di peluche, che ritornano spesso nel film. La frase più sensata è quella che, significativamente, un anziano paziente riferisce all'infermiera che è protagonista del primo episodio: "le persone amano auto-ingannarsi". Solo che qui non c'è neanche il gusto di farlo. 

Un film notevole, che resta a interrogarti per giorni, senza un perché. Non è tanto il racconto, infatti, a suscitare questo supplemento di riflessione, quanto i "modi" della messa in scena, e il lavoro che il regista sembra fare sulle emozioni come merce, trasformando pezzi di vetro in diamanti e viceversa, in un percorso tra alienazione e serialità dell'odierna condizione umana (una delle protagoniste, non a caso, è la cassiera di un supermercato).

La nuova finestra sul cortile. Da vedere, ma è difficile che passi in TV. 4/5

Qui il trailer del film.

domenica 9 aprile 2017

Psicoanalisi (N. Janigro, 2017)

Non sono un esperto, ma qualcosina ho letto sulla materia, alla quale mi sono riavvicinato da qualche anno. Qui video-recensisco un libriccino recente (Mimesis, 2017) sulla psicoanalisi, scritto da Nicole Janigro, che mi ha molto incuriosito. 

Parlo della vulnerabilità dell'uomo contemporaneo, del rapporto analista-paziente, della componente pseudo-religiosa di questo rapporto, del corpo come luogo del sintomo e agente della domanda di cura, dello stretto legame tra psicoanalisi e testualità (scritta e per immagini). Infine, mi soffermo sull'attualità dell'incorporamento del negativo nella nostra epoca, e sulla ricchezza interdisciplinare di questo campo di studi così controverso. 

Buona visione! 

https://youtu.be/fUqBrewFVvI

lunedì 27 marzo 2017

La corrispondenza (G. Tornatore, 2016)

All'asserzione: «Il sole sorgerà domani», il filosofo Bertrand Russell era solito rispondere: «Non avete assolutamente alcuna valida ragione per pensare che quanto è accaduto in passato debba continuare ad accadere in futuro». Si riferiva, tra le altre cose, al difficile rapporto "epistemologico" che abbiamo con le stelle. Ciò che pensiamo di vedere nel cielo, infatti, non è che il riflesso di una cosa che potrebbe essere morta già da molto, molto tempo, e che ha lasciato al suo posto un buco nero. Coi nostri sensi, dunque, finiamo col vedere ciò che non è più.

Intorno a quest'idea si sviluppa l'ultimo film di Giuseppe Tornatore, La corrispondenza, che ritorna al thriller metafisico, dopo la buona prova de La migliore offerta (2013), e senza dimenticare lo straordinario ed indimenticato Una pura formalità (1994).

Il professor Edward ("Ed") Phoerum (Jeremy Irons), docente di astrofisica all'Università di Edimburgo, ha una relazione segreta con una sua studentessa fuori corso (Olga Kurylenko, nel ruolo di Amy Ryan). Un giorno scompare improvvisamente, ma continua in qualche modo a comunicare con la donna di cui si è perdutamente innamorato.

La corrispondenza del titolo allude sia alla felice corrispondenza di sensi tra i due amanti, sia alla complessa comunicazione che avviene tra loro, quando il professore scompare. Il film, infatti, è una sorta di meta-testo, composto da vari tipi di messaggi, i quali assumono ora la forma di un sms, ora di un video registrato su un compact disc, ora di una seduta su Skype, ora di una lettera con tanto di sigillo in ceralacca. Non ho letto il romanzo, edito da Sellerio, uscito in contemporanea al film, ma sarebbe interessante vedere come la storia è stata trattata sulla pagina scritta. 

La riflessione di Tornatore non è estranea ad alcune questioni sollevate dalle scienze esatte contemporanee. Non a caso Ed Phoerum è un professore di astrofisica. Anzitutto, entrambi i personaggi principali sembrano moltiplicarsi seguendo formule frattali: Ed perché si riproduce in modo geometrico su vari supporti testuali, ed Amy perché nella sua attività di stuntgirl interpreta vari personaggi che muoiono, per poi aprire gli occhi subito dopo il ciak. Ad ogni mutazione, tuttavia, continuano a rimanere loro stessi, autosomiglianti, come nei cosiddetti fenomeni a invarianza di scala (nel caso di Amy, si ripetono addirittura alcuni eventi precedenti e traumatici della sua esistenza). Vi è, inoltre, una sorta di entanglement quantistico tra Amy e il professore, che li fa rimanere legati a dispetto delle avversità che incontrano (nel caso di Ed, un'avversità esiziale). Non-separabili, del resto, sarebbero tutte le particelle dell'universo, stando al paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen.

Il classico tema del doppio, dunque, viene qui esplorato ed espanso in modo interessante, salvo cedere ad alcune interpretazioni di matrice psicanalitica che ho trovato un po' troppo semplicistiche e scontate (vedi, ad esempio, il rapporto di Amy con la madre). Belli invece i riferimenti (non pochi) al concetto junghiano di sincronicità, agli "atti creativi del tempo" che attingono ad archetipi psichici, all'alchimia del desiderio. Desiderio che per lo spettatore rimane tale, in quanto non vediamo mai i due protagonisti fare l'amore. Essi sono dislocati all'interno di una matematica negativa permanente.

Ma il tema più profondo del film, a mio avviso, riguarda il dilemma post-positivista tra realtà e finzione nell'epoca della riproducibilità tecnica. Il dilemma inverso tra la verità dei sogni e la finzione della tecnica (l'impressione di posticcio che trasmettono le conversazioni online andrebbero in questa direzione, anche se temo che non siano una scelta consapevole di Tornatore, bensì l'esito di una cattiva mise-en-scène). Il cimitero, così, non sembra avere più senso (Amy lo impara nella prima parte della storia, quando al cimitero ci va per cercare Ed), come in quella canzone dei Baustelle che recita: 

I cimiteri non danno pensieri,
sei tu che ti sbagli, se stanco, disperi
e piangi per colmare i buchi dell’assenza.
Vive come il pieno la vacanza e non spira mai.

Alla fine del film, però, si piange. Monta una sorta di rimpianto universale. Tornatore sa da sempre come manovrare le emozioni dello spettatore. Molto bello è il discorso finale del professore sugli errori che ci rendono mortali. Qui c'è tutta una Weltanschauung della colpa, che ha una lussuosa tradizione, e che affonda le proprie radici nella notte dei tempi: "Se solo ti avessi incontrata prima...". Su questo si è detto, si è scritto e si è letto di tutto. Il regista, tuttavia, riesce nell'intento di aggiungere qualcosa di nuovo. 

Ma veniamo ai difetti del film. Il contenuto - va detto - è di gran lunga migliore della forma, e poiché qui si parla di cinema, che è esperienza della visione, il peccato è mortale. Se ne è forse reso conto lo stesso Tornatore, il quale ha fatto uscire contemporaneamente anche un romanzo tratto dal film, confessando sulla quarta di copertina quanto l'immagine possa rubare alla pagina scritta. Il film è pessimo da un punto di vista tecnico, girato in brutta calligrafia, perfino rozzo sul versante della computer grafica. A tratti è recitato davvero male, e qui le responsabilità ricadono soprattutto sulla prova della Kurylenko; in alcune sequenze, sembra addirittura di rivivere un film dell'ultimo Dario Argento, ed è quanto dire. La colonna sonora di Morricone è messa in secondo piano, e pare un po' gettata via. Ci sono anche delle incertezze nella sceneggiatura, il film appare prolisso, e alcuni giri sono a vuoto (ad esempio, alcune sequenze girate nella residenza di Borgo Ventoso). Insomma, sembra d'avere davanti una brutta scatola di cioccolatini, che però ne contiene alcuni molto buoni. Come si fa a non comprarla? (A proposito di prodotti, l'abuso del product placement in questa pellicola è davvero irritante!). 

Non sono mancati, comunque, i premi. 

Le stelle morenti continuano a brillare per molto tempo ancora dopo la loro morte. Accade al professor Phoerum, il messaggero, il "portatore" di notizie, come suggerisce lo stesso cognome, il quale è un'illusione ottica già da prima della sua scomparsa; per la moglie - ad esempio - che ne scorge dei riflessi ormai ingannevoli. Mentre per Tornatore si può parlare di un'eclissi. Un'eclissi o un collasso? Per questo bisognerà aspettare il prossimo bagliore di luce. Bello, ma non troppo. Davvero un gran peccato! Voto 3/5

sabato 4 marzo 2017

Café Society (W. Allen, 2016)

"Socrate dice che una vita non analizzata non ha valore. Ma quella analizzata non è un affare". 

Si chiude così, in crescendo, dopo un inizio un po' frenato, Café Society, l'ultimo film di Woody Allen. Un film sul dilemma tra rimorsi per gli sbagli compiuti e rimpianti per le cose mai fatte ma desiderate, che - come spesso accade nei lavori del regista newyorkese - è una lucida e a tratti cinica riflessione sulla condizione umana.

La storia racconta del giovane Bobby Dorfman (uno straordinario Jesse Eisenberg), che lascia la famiglia di origine ebree, nel Bronx, per raggiungere lo zio Phil Stern (interpretato da Steve Carell), un influente impresario cinematografico, nella Hollywood degli anni Trenta. Qui riuscirà ad entrare in contatto con l'alta società e, soprattutto, conoscerà Veronica (Vonnie) (Kristen Stewart), segretaria dello zio, con la quale intreccerà una relazione complicata, che è poi al centro del film.

Meno divertente che in altre occasioni, la pellicola è un'occasione per ragionare di sentimenti e di potere, di filosofia e di religione, di etica e di prassi. Ciò avviene soprattutto nella seconda parte, con il ruolo da coro greco affidato a Leonard (Stephen Kunken), il cognato di Bobby, il quale fa appunto da coscienza critica e guida etica tra i dilemmi sollevati e in qualche modo indagati nel film. Solo abbozzata, invece, è la café society hollywoodiana, che rimane sullo sfondo e sembra descritta come in certi articoli di gossip in voga anche oggi in certe rubriche di giornali e riviste popolari. La società d'alto bordo raccontata da Allen è, in realtà, solo un pretesto per un ennesimo sguardo in profondità sulle relazioni tra le persone.   

La mancanza di una risposta ai vari dilemmi posti dal film, la mancanza anche di una risposta escatologica (vedi la sequenza in cui Rose Dorfman (Jeannie Berlin) discute col marito sull'assenza di una dimensione ultraterrena nella religione ebarica), è essa stessa una soluzione. Allen sembra suggerici che non ci si può opporre alle leggi millenarie, alla sceneggiatura "scritta da un sadico che fa il commediografo", di un'umanità rimasta in balia del desiderio (un discorso che Bobby riprende nella seconda parte del film). Leggi che talvolta si possono spiare da una fessura imprevista, come quando ti accordi di amare due persone con lo stesso nome: Veronica. Fatto, quest'ultimo, che sembra concepito dal caso; caso, però, che non esiste. Si può sognare, ma "i sogni sono sogni". Cioè, in definitiva, un inganno; sebbene un inganno necessario. Ed ecco l'amara poetica esistenzialista più volte illustrata dal regista anche in altre occasioni.

Café society non è il miglior film di Woody Allen, ma l'impronta del maestro c'è. Tutti gli attori sono bravissimi, Jesse Eisenberg, Steve Carell e la scintillante Black Lively su tutti. Tecnicamente impeccabile, e con bellissimi movimenti di camera: la sequenza d'apertura ai bordi di una piscina è un'autentica boccata d'aria fresca. Fotografa Vittorio Storaro. E si vede. A fine proiezione, il languore c'è. E forse anche la catarsi. Ed è ciò che conta. 4/5

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sabato 25 febbraio 2017

La vita di Adele (La vie d'Adèle, A. Kechiche, 2013)

Con una macchina da presa gettata praticamente addosso alla protagonista, assistiamo all'educazione sentimentale della giovane Adèle (la bravissima Adèle Exarchopoulos), studentessa e poi maestra elementare parigina con molti dubbi e altrettante insicurezze. 

Il film procede per segmenti quasi autonomi, che però non vengono sottolineati da segni espliciti di punteggiatura, delegando allo spettatore la ricostruzione delle numerose ellissi narrative. Sembra di guardare un album di fotografie con lunghi vuoti temporali tra uno scatto e l'altro. Il punto di vista sembra essere interno. Una serie di ricordi messi in ordine cronologico, da cui emergono con prepotenza alcune esperienze, che risultano più vivide di altre.

La regia, che si ispira ad una graphic novel di Julie Maroh, sceglie dunque di non spiegare. Piuttosto, descrive, illustra, mostra. In questo senso, il piano espressivo e quello tecnico sono perfettamente in linea. 

Tra le descrizioni privilegiate, vi è soprattutto la vita sessuale della protagonista, cui fanno significativamente da contrappunto vari momenti in cui i protagonisti mangiano (anche in modo alquanto vorace). Adèle da eterosessuale "per imitazione" diventa omosessuale, come può accadere nella vita di molte persone (mi è parso di rivedere la classica tipizzazione del sociologo Kenneth Plummer). La rappresentazione è cruda, (im)mediata e senza musica, di un realismo quasi vicino al programma estetico del naturalismo francese (Émile Zola viene citato in un breve passaggio). Qualcuno l'ha definita pornografica. Naturalmente, non lo è, se non altro perché il sesso è funzionale alle scelte diegetiche di Kechiche. 

Tuttavia, mi è parso che il regista abbia preferito adottare alcune facili scorciatoie. L'assenza di una problematizzazione sia psicologica sia sociologica del personaggio di Adèle credo che alla fine nuoccia al film, o comunque rappresenti un'occasione perduta. La proposta del tema arte/vita, che sembra timidamente farsi strada a un certo punto del film, ad esempio, viene presto scartata come uno studio non riuscito. Il fatto che Adèle sia lesbica, inoltre, non dovrebbe legittimare una lettura (esclusivamente) sessuogenetica della sua biografia, pur essendo la sua passione divorante. Errore nel quale si ricade spesso, quando alla base della classificazione di una persona c'è il suo orientamento sessuale.  

Alcune indecisioni stilistiche sembrano emergere qui e là, anche se le prove d'attore sono maiuscole e indimenticabili, e il film sembra soffrirne oltremodo, anche considerando la lunghezza di quasi tre ore. Palma d'oro a Cannes nel 2013. Menu, però, a mio avviso, rivedibile. 4/5

mercoledì 18 gennaio 2017

Carol (T. Haynes, 2015)

Una storia tenera e drammatica, che comincia in un negozio di giocattoli: il luogo dei desideri per eccellenza. L'ambientazione e la fotografia ispirate alle copertine di LIFE degli anni Cinquanta e ai quadri di Edward Hopper. Un taglio delle inquadrature pudico, insolito e molto coinvolgente (sembra di starci dentro al film, di fare un viaggio nel tempo). Una colonna sonora nostalgica e viscerale. La recitazione MONUMENTALE di Cate Blanchett. E quella sensazione che ti accompagna per giorni, dopo la visione... Tutto questo, e molto altro, è Carol di Todd Haynes (2015), dove, nel disordine del desiderio, le persone non sono più giocattoli. Nato già classico. 5/5

martedì 17 gennaio 2017

Il volto di un'altra (P. Corsicato, 2013)

Il cinema italiano è vivo e lotta con noi. Il ritorno di Pappi Corsicato alla regia, dopo Il seme della discordia (2008), è fulgido e irresistibile. Il volto di un'altra, a mio avviso, è uno dei più bei film italiani degli ultimi anni.

Intanto, perché è assolutamente estraneo alla depressa "poetica" del cinema italiano d'inizio secolo. Felicemente effervescente, macabro e spiazzante, visivamente potente. In secondo luogo, perché riesce a divertire spettatori colti e medi, regalando a ciascuno motivi per uscire dal cinema satolli e beati. In terzo luogo, perché, pur apparendo disimpegnato in superficie, è un film che assesta un bel po' di colpi bassi alla società di oggi, rinfacciandogli certi tic e una cattiva propensione all'accettazione della volgarità (soprattutto televisiva). Sì, è un po' ingenuo sociologicamente, ma non banale: ciò che dice, lo dice con uno stile unico e personalissimo. E, dunque, bene così. Fra i temi, il triangolo dialettico anima-corpo-società, con più d'una allusione al Dorian Gray di Wilde. Il senso di posticcio è immanente, il film stesso è riflessivamente finto, è la chirurgia plastica di un film; ciò gli consente di denunciare la "falsità" semiologica di qualsiasi messinscena (anche quella delle cerimonie sociali).

E poi è un film che diverte come non mai. Un divertimento che può essere motivato ora dalla pulsante, fantasmagorica, scintillante messa in scena, contrappuntata da trovate estetiche spesso geniali, che giocano a sedurre continuamente gli occhi dello spettatore; ora da alcuni momenti elegantemente comici, in cui si ride di gusto; ora dal fatto di riuscire a riconoscere le tante citazioni cinematografiche disseminate nel film (da Occhi senza volto di Franju a Phantom of the Paradise di De Palma, dal Rocky Horror Picture Show a Metropolis di Fritz Lang, da Brazil di Gilliam a certi motivi felliniani, solo per citarne alcuni).

Si tratta di una pellicola in cui sembrano collassare lo spazio (ad esempio, Bolzano che si trasforma in Tucson, Arizona) e il tempo, che mescola agilmente una manciata di sottogeneri: il melò in auge tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta (quello dei film con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson), il cineromanzo, il fumetto pop, l'horror d'antan (primo fra tutti, considerato il tema del film, Frankenstein), la commedia all'italiana. 

Tutti in forma gli attori: dal cinico chirurgo dandy (Alessandro Preziosi, René), alla bellissima Laura Chiatti (Bella); dalla iconica Iaia Forte all'ironica (in quanto rifattissima) Rosalina neri. Sicurissima, matura e divertita la regia di Corsicato.   

Da antologia il balletto complice tra Preziosi e la Chiatti, che allude vagamente a quello tra Uma Thurman e John Tavolta in Pulp Fiction. E da antologia il finale, che ovviamente qui non svelo, ma che pare anticipare alcune odierne riflessioni sulla post-verità. Un finale che mi ha ricordato una sequenza di Tommy degli Who. Dotato di una certa densità filosofica e sociologica, nel momento in cui scopriamo che "la verità fa ridere". L'operazione sembra rileggere il senso del programma estetico surrealista bretoniano: qui la giustapposizione di figure e simboli («l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio») si sposta dal sogno al motto di spirito, dall'inconscio al riso... che, alla fine, ci seppellirà tutti. Supercalifragilistichespiralidoso! 5/5

Il trailer del film

venerdì 13 gennaio 2017

L'amore e la violenza (Baustelle, 2017)

L'amore e la violenza, l'ultimo disco dei Baustelle, è un lavoro di ricerca e (ri)scrittura notevolissimo. Gramscianamente "organico", riesce a miscelare, senza scarti, musica alta e musica bassa, pop e sperimentazione, vecchio e nuovo, in una problematizzante, disperata sintesi postmoderna. Parole e sonorità spaziano da Nicola Di Bari ai Goblins di Claudio Simonetti, da Viola Valentino a Rick Wakeman, da Don Backy a John Lennon, da Franco Battiato al maestro Riz Ortolani, da Sandokan degli Oliver Onions a Fabrizio De André, solo per citarne alcuni. Viene sistematicamente evitata certa standardizzazione imperante nella pop music contemporanea, e proposte oblique progressioni armoniche e versi fuori squadra, come in un processo evolutivo mutante. Mi ha evocato il languore di quei lividi tramonti urbani, che disegnano le ombre e le lacune delle nostre periferie. Per molto meno, nel caso dei Talking Heads, si parlò di capolavoro. "Complimentazioni", e molte stelle... al collasso. Sublime.