sabato 5 dicembre 2020

Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things, C. Kaufman, 2020)

Sto pensando. Sto pensando di... È un cogito cartesiano, quello in cui c'imbattiamo in questo film di Charlie Kaufman, sin dal titolo. Perifrastica attiva dell'atto in procinto di compiersi, della potenza che non è ancora atto; delle possibilità che non sono ancora diventate fatti e che potrebbero ancora attualizzarsi in mille modi. Ma anche "dimenticanza dell'intenzione" (sono ancora attualissimi gli esperimenti di Carmelo Bene nei suoi Amleto). Cogito, ergo sum. Penso, dunque sono. Sì, ma chi? Chi sono? E qui la faccenda si complica, perché questo è un film profondamente filosofico, che con le questioni epistemologiche e persino ontologiche gioca e si confronta, quasi furiosamente, in una complicata rete di riferimenti, come in un labirinto di specchi, che in certi momenti possono dare le vertigini.

Attraverso l’uso anaforico dell’espressione “sto pensando di”, vengono poste sul tavolo, nel corso d'un viaggio che non è solo fisico ma anche simbolico, tutta una serie di questioni che affollano la mente della protagonista (e non solo di lei), in un flusso di coscienza che ha la stessa nobiltà di quelli costruiti da Joyce. La matrice letteraria del film è, comunque, l'omonimo romanzo di Iain Reid del 2016. L’elemento in comune che contraddistingue tali questioni è l’esplorazione dell’esperienza del mondo, che è allo stesso tempo Erfahrung ed Erlebnis, come ci hanno insegnato i filosofi tedeschi. E allora nel film vediamo magistralmente, quasi miracolosamente, sovrapporsi numerosi piani: presente, passato e futuro, realtà e soggettività, spazi fisici e spazi mentali, fatti reali e fatti possibili o pensati, progetto e improvvisazione, caso e destino. Sto pensando di finirla qui è, per certi versi, un film “quantistico”. Certo, viene citata la "formula dell'amore" di Paul Dirac, ma soprattutto pare di vedere all'opera in modo plastico il principio d'indeterminazione di W.K. Heisenberg; il fatto, poi, che i due protagonisti principali del racconto siano due scienziati è più d'un indizio.

La messa in discussione della realtà che è centrale nel film sembra una filiazione del gigantesco dibattito che ha coinvolto, nel Novecento e oltre, almeno quattro discipline e i rispettivi livelli della realtà: fisica, neuroscienze, arte e filosofia. Il film ha quasi la forma d'un trattato scientifico: sembra d'intravederne abstract, citazioni, dati e nota metodologica. Perfino l'impact factor finale con attese da premio Nobel. Un film-saggio che denuncia, sulla falsariga dei lavori oggi fondamentali del neuroscienziato Antonio Damasio, l’"errore di Cartesio", la separazione tra corpo e mente. Questione esplorata anche nell'incredibile carteggio tra lo psicologo Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli e raccontata in termini divulgativi da Charles P. Snow nel suo pamphlet sulle due culture. Una dicotomia, tuttavia, che ne richiama altre e, tra queste, quella tra scienza e arte (sul tema, mi permetto di rimandare al documentatissimo saggio si Stefano Poggi, L'anima e il cristallo, il Mulino, 2014).

Lo splendido, spiazzante, imprevedibile finale ci mostra l'approdo contemporaneo di quel dibattito novecentesco, all'insegna della conciliazione proprio tra arte e scienza, che in fondo è, paradossalmente, tutta romantica (non era forse proprio Goethe uno scrittore-scienziato?), dopo la grande fatica d'aver dovuto mettere tra parentesi ogni certezza. Come scriveva John Lennon, “life is what happens to you while you’re busy making other plans”. Una fatica che ci ha disorientati, messi a disagio e fatto letteralmente paura, come in un horror. Perché questo è anche un film gotico contemporaneo (e qui potrei rimandare al saggio di Federico Boni sulla serie TV American Horror Story). Tra le righe, ad esempio, m'è parso d'intravedere un omaggio allo Shining kubrikiano, oltre a tanti altri (memorabile la discussione su Una Moglie di John Cassavetes, per certi versi un altro film sull'orrore borghese americano e le sue conseguenze psicologiche). 

Quello di Kaufman potrebbe essere uno dei film, ma anche dei saggi, del secolo. Da proiettare nelle scuole di ogni ordine e grado, come si diceva una volta. Ci si potrebbe organizzare un corso monografico universitario post-disciplinare. Perché questo è cinema di grado superiore al secondo. Intanto, si può ammirare su Netflix.

venerdì 20 novembre 2020

Liberté (A. Serra, 2019)

Impressionante, non tanto per quello che si vede, quanto per quello che NON si vede. Resoconto notturno, nel rispetto delle classiche unità aristoteliche, d'una impossibilità e d'un fallimento: quello del piacere, ma soprattutto della ragione; entrambi centrali nell'età dei lumi. Aufklärung negativa, che ci parla della ricerca del profondo "alla luce del buio". Disperato e disperante, può ricordare il Salò pasoliniano, anche se qui si battono altre strade, nonostante le medesime allusioni a Sade e la presenza d'un sottotesto politico sia nell'uno sia nell'altro. Film estremo, da ogni punto di vista. Tecnicamente, un lavoro gigantesco di riflessione sui modi della rappresentazione. Sarà certamente incluso nelle letterature di genere. Senza voto, indecidibile.

domenica 15 novembre 2020

Midsommar - Il villaggio dei dannati (Midsommar, A. Aster, 2019)

Quasi un ideale successore de La montagna sacra (1973) di Alejandro Jodorowsky, Midsommer - Il villaggio dei dannati (2019), di Ari Aster, è un film sulla presenza dolorosa e opprimente delle convenzioni e del simbolico nella vita degli individui, che mette in drammatica e irriducibile antitesi l'individuale e il collettivo. Esso sembra ricalcare certa letteratura che, nelle scienze sociali, ha svelato in modo eclatante la centralità degli aspetti normativi dell'agire: S. Asch, S. Milgram, P. Zimbardo. In un certo senso, potrebbe rappresentare il resoconto d'un esperimento sull'obbedienza andato a male.

Il film è costruito come un discorso formulato dall'inconscio, un sogno-incubo, un lavorio allucinato (di qui la continua allusione alle droghe) che prova a fare i conti con un reale insopportabile, compreso l'evento del lutto. Ma, laddove - in Jodorowsky - il simbolico e la sua sovversione venivano lasciati liberi di sprigionare tutto il loro potenziale anarchico, qui invece, con l'opera di Ari Aster, abbiamo una struttura del tutto coerente, una teoria, una tesi da dimostrare, come quella che due dei giovani protagonisti devono scrivere sulle tradizioni del villaggio svedese che li ospita.

La teoria è che non si può prescindere dai rituali imposti dalla società. Anzi, gli si deve obbedire. Tanto più, quando questa società è chiusa, quando si fa "comunità" di sangue (Gemeinschaft, per usare la categoria sociologica di Tönnies). Si vedono, così, tutti gli estranei al villaggio, gli ospiti americani, coinvolti e anzi "spinti" a partecipare, loro malgrado, alle varie attività tradizionali e quotidiane promosse dagli indigeni. La chiusura, tuttavia, può allontanare la legge (che è anche legge religiosa) dalla morale, quando la prima viene "recitata" in modo automatico, autoreferenziale. E qui la teoria del film diventa teoria "politica" e ci ricorda tanto horror sull'America profonda degli ultimi anni.

C'è, comunque, un bisogno forte a cui dà risposta la comunità: la condivisione del male, per curarne le ferite, per lenirne il dolore. Cosa che, forse, può spiegare l'atrocità del resto... Questa precisa funzione sociale della comunità viene rappresentata nel film, in più occasioni, in modo potentissimo; rappresentazioni che, da sole, valgono il prezzo del biglietto. Ma un micro caso-studio viene già anticipato nel prologo del film, quando osserviamo la relazione di coppia tra Dani e Christian; una relazione d'aiuto, e probabilmente solo quello. La coppia-diade, del resto, è la prima e più elementare forma di gruppo sociale. Dani e Christian, man mano che la storia prosegue, si allontanano, ripercorrendo a ritroso l'evoluzione dalla famiglia moderna nucleare a quella estesa e patriarcale, dimostrando - come voleva Durkheim - l'inadeguatezza della prima in un contesto comunitario e premoderno.

Il supporto comunitario ha perciò un costo: la perdita dell’io e del suo corpo fisico. Nella comunità non si agisce, si è lacanianamente “agiti”, non si parla si è “parlati”. Di qui la dannazione: c’è un orrore della realtà (e della libertà) e un orrore della sua sublimazione nella società-comunità. Non sembra esserci soluzione. La teoria si rivela un'aporia. Non resta che scegliere come uccidersi, come - letteralmente - "farsi fuori".

Midsommar è un grande film, che fa del sublime la sua cifra estetica. E, del resto, tratta del resoconto d'una sublimazione. Notevolissima e riuscita, in questo senso, la scelta (e l'impresa) di realizzare un horror alla luce del sole, abbagliante. Gli elementi d'interesse e le chiavi di lettura sono tantissimi. Il film è un enorme giacimento di simboli da decifrare (quasi un linguaggio) e, in questo senso, può proporre qualcosa di nuovo ad ogni lettura. Non ho qui toccato, ad esempio, la questione della simbologia norrena. Regista-autore da tenere d'occhio. Esperienza della visione e tensione a livelli altissimi. 4/5

giovedì 20 agosto 2020

Il sacrificio del cervo sacro (Y. Lanthimos, 2017)

I film di Yorgos Lanthimos non lasciano mai indifferenti. Non fa certo eccezione Il sacrificio del cervo sacro, uscito nel 2017, una sorta d'ibridazione fra Teorema di Pasolini (1968) e Eyes wide shut di Kubrick (1999), anche se i riferimenti meta-cinematografici sono assai di più (De Palma, Friedkin, Tarkovskij e altri). Un’ibridazione non solo tematica, ma anche filosofica, sull’irruzione del desiderio adulto e delle sua forza devastatrice in un contesto borghese. Un tema, certo, non nuovo sul grande schermo e in letteratura.

Lanthimos rivolge la sua riflessione, che tocca anche altre questioni correlate, al momento del passaggio degli individui dalla fanciullezza all’adolescenza. Non è un dettaglio che i giovani protagonisti del film siano una ragazza che ha appena avuto la sua prima mestruazione (ricordate Carrie?) (Raffey Cassidy, nel ruolo di Kim) e un ragazzo alle prese con le sue prime polluzioni (Sunny Suljic, nel ruolo di Bob), entrambi figli di due affermati medici (Colin Farrell e Nicole Kidman). Sono loro che entrano nel labirinto dell’adolescenza e del successivo mondo adulto; un labirinto ch’è suggerito dai movimenti della macchina da presa, la quale sfrutta la profondità (ottenuta anche sfruttando delle disturbanti ottiche fisheye alla De Palma, oltre che i carrelli) a scapito della orizzontalità, e che a tratti ci riportano ad una sorta di punto d’osservazione paradossale, come in una tavola di Escher (cfr. la Fig. 1).

Fig. 1 - Prospettive escheriane

Kim e Bob stanno dunque per entrare in una nuova fase della vita, e questo passaggio comporta tutta una serie di traumi, simbolicamente evocati da fenomeni, malattie e mutazioni che s’abbattono sui loro corpi. Il mondo adulto non capisce. Neanche il giovane Martin (interpretato dal bravissimo Barry Keoghan), già sedicenne e dunque testimone del passaggio, una sorta di traghettatore, di Caronte dolente, può salvare l’innocenza dei ragazzi, i quali sono però ancora capaci di vedere l'altra parte del mondo (tema romantico per eccellenza, Erlebnis contro Erfahrung). Egli rimane una Cassandra inascoltata, un indovino senza credito, pur essendo il demiurgo della storia, testimone delle colpe degli adulti, del loro desiderio inappagato e inappagabile, delle loro pulsioni malamente sublimate (o consumate in "anestesia generale"); testimone persino del fallimento della scienza (medica, in questo caso). Comprendere una persona, la sua anima, una relazione, il senso e il destino va al di là delle analisi del sangue o del liquor cefalorachidiano, di un ECG, delle radiografie, delle risonanze magnetiche (il campionario è pressoché completo e ricorda cose viste negli horror di Friedkin).

Bob e Kim appaiono vittime del mondo adulto e di un destino che colpisce alla cieca e che non dipende dai talenti delle persone (significativo il colloquio del padre dei ragazzi col preside della scuola). Sono costretti a guardarlo il mondo adulto, ma con la conseguenza d'arrivare a farsi sanguinare gli occhi o d’imparare presto le retoriche seduttive e manipolatorie dei padri (impressionante il ragionamento del piccolo Bob rivolto al genitore, verso la fine del film). Non è prevista salvezza (cfr. la Fig. 2), neanche nell'apparentemente sicuro rifugio borghese (figurarsi!), e a dispetto dei riferimenti religiosi e letterari presi in prestito da regista e sceneggiatore (su tutti, l’Ifigenia in Àulide di Euripide, dalla quale deriva anche il riferimento al cervo).


Fig. 2 - Nessuna salvezza

Il sacrificio del cervo sacro è l’ennesimo gran film di Yorgos Lanthimos, che muove il suo sguardo catatonico e spaesato e dirige un pugno di grandi attori con l’efficacia e la sapienza del maestro consacrato. Il film, che ritorna in qualche modo ai temi di Dogtooth (2009), ne costituisce una sorta di slargo filosofico e sociologico, mettendo solo in parte sullo sfondo la chiave surreale. Attori tutti in grandissima forma e tensione narrativa costante per tutte le due ore del film. Commento sonoro doloroso e affilato come un coltello. Un film assassino e ateo da guardare senza fazzoletti.

domenica 12 aprile 2020

La vita negoziabile (L. Landero, 2018)

Una lettura godibilissima, sostenuta da una fantasia effervescente. Un racconto che mischia parecchi generi: dal giallo al feuilleton, fino alla storia curiosa dell'unico santo all'inferno: Garcinuño. Una variazione, sebbene non esplicitata da Luis Landero, sul tema della sincronicità junghiana ("Ignoravo che le cose importanti e decisive, quelle che attribuiamo pomposamente al destino o al bisogno, hanno quasi sempre origine da episodi insignificanti e persino ridicoli, di certo casuali", "In una frazione di secondo ci si può trasformare in una canaglia o in un santo"), che ispira un principio di vita che dà il titolo al romanzo: la negoziabilità dell'esistenza. Al centro, un non-luogo emblematico, attorno al quale ruotano molte delle vicende raccontate: il salone del parrucchiere ("Cosa sono i negozi dei parrucchieri se non piccole università popolari?"). Landero ci propone una riflessione su caso e destino alla fine cinica ("Ecco com'era il mondo, un imbroglio, un luogo ripugnante dove non c'era posto per la purezza", "La legge della sopravvivenza vince sugli imperativi etici") e rassegnata ("L'abitudine semplifica tutto e lo trasforma in qualcosa di piacevole", "Ci si gira e ci si rigira fino a trovare una posizione più o meno comoda. Tutto qui"), in cui svolgono un importante ruolo i segreti, le bugie, il silenzio, e dove non c'è probabilmente spazio per l'amore. Da leggere.

Naboer (P. Sletaune, 2005)

Naboer (Next door) (2005) di Pål Sletaune è un grande, claustrofobico, impressionante film norvegese sulla violenza di genere. Niente affatto banale, con un ritmo perfetto, un paio di sequenze da ricordare e un tocco di surrealismo, vince a mani basse il titolo di "filmissimo". Uno dei cinque film norvegesi vietati ai minori di 18 anni in patria. Una gemma nascosta, ma pericolosa.

Madre! (Mother!, D. Aronofsky, 2017)

Madre! è un film diretto dal regista Darren Aronofsky nel 2017 e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nello stesso anno. Racconta le vicende d'una coppia di sposi, che si trovano a fronteggiare l'arrivo d'alcuni ospiti inattesi nella loro nuova casa.

Dopo un brevissimo prologo, il cui senso si finisce per comprendere nell'ultima sequenza, il film ci introduce in una grande casa isolata, in mezzo al verde d'una campagna indefinita. Vi abita una coppia, di cui non conosciamo i nomi: lui (interpretato da Javier Bardem) è un poeta maturo e in crisi d'ispirazione; lei (Jennifer Lawrence), molto più giovane di lui, si dedica alla ristrutturazione della casa e alle consuete faccende domestiche.

Emerge così il primo motivo conduttore del film. Un motivo sociologico. L'organizzazione della casa, infatti, sembra obbedire alle regole dell'impianto patriarcale classico, in cui, mentre l'uomo è impegnato a scrivere un nuovo poema, attorno al quale gravitano tutte le attività domestiche (un poema ch'è metafora del lavoro, della realizzazione, del successo personale), la donna assiste il marito, il "capofamiglia", nell'atto faticoso e cruciale della creazione (la poiesis, difatti), scegliendo di rimanere sullo sfondo. Un impianto in cui, però, manca ancora l'ultimo tassello, e cioè un figlio, affinché possano completarsi le tradizionali funzioni sociali della famiglia borghese. Una lesione da riparare.

La casa (Heim, in tedesco), però, viene presto invasa da una serie d'estranei, che sembrano minacciarne la tenuta. L'aspetto sinistro, spaesante, perturbante (Unheimliche, nel lessico Freudiano) di questa irruzione sposta immediatamente il discorso dal piano sociologico a un piano psicologico più profondo. Lo straniero, infatti, è sia fuori sia dentro di noi. Il disagio dello spettatore monta rapidamente, sottolineato dai frenetici movimenti della macchina da presa, il giro sulla giostra comincia e l'angoscia alza la temperatura delle vicende. Il registro stilistico s'indirizza verso la dimensione onirica, surreale, del sogno o meglio dell'incubo, dove il perturbante spadroneggia. Il senso sembra deragliare a più riprese, aprendo spazi alle pulsioni primarie e ad una violenza, in varie forme, che ne è diretta conseguenza. Non sembra azzardato, qui, riconoscere un debito specifico al Buñuel dell'Angelo sterminatore.

Il discorso sociologico, tuttavia, non passa affatto in secondo piano. L'origine del perturbante, infatti, è sociale. Viene da una società che ha il cancro (è il cancro?) (il riferimento è ad uno dei personaggi del film). La solo apparente armonia della coppia è disturbata, strappata, ferita dalle persone che continuano a irrompere in casa. I segni non mancano: si rompono oggetti, si feriscono parti del corpo, si guastano apparecchi. La "società" s'infila anche negli aspetti più intimi della coppia, rendendola instabile, vulnerabile, incapace di resistere ad una pressione potentissima, potrebbe essere quella della ristrutturazione neocapitalistica del mondo di oggi, per la quale risulta fondamentalmente impreparata, come ci racconta la sociologia contemporanea. La casa isolata, incompleta e fratturata ne è la metafora più efficace. Inutile fare progetti, ambire alla perfezione, illudersi: «Andrà tutto bene, tutto a posto, ce la farai. Sai una cosa? La vita non sempre va come realmente desideri», dice lui. «Hai ragione: la mia lo dimostra», risponde lei. Per inciso, solo a seguito di questa epifania, di questa presa di coscienza - diventata terapeutica - di un'alienazione immanente, ha luogo l'unico evento doppiamente fecondo del film. Certo, al costo di mettere letteralmente sotto il tappeto la ferita sanguinante della "casa", delle istituzioni borghesi.

Nella seconda parte del film, entra in scena la forza devastante del biopotere sugli individui. Viene inaugurato un terzo tema, quello del corpo, che nella tradizione biblica è la "casa" di Dio. La casa, e dunque anche il corpo, non sono "di proprietà" della protagonista, la quale di suo non ha neanche il nome. Ciò le viene ricordato, quasi beffardamente, da vari intrusi, ogni qual volta lei urla disperata: "Questa è la mia casa!". Spunti e spazi foucaultiani, a partire dall'eterotopia già rappresentata dalla casa, sembrano spuntare da ogni lato. La società dei maschi elegge, venera e celebra il leader e il profeta, crea religioni e fa la guerra, sfrutta o degrada le donne, ne sacrifica i figli (prima figli di Dio e poi vittime di quel potere), strappa a vivo il cuore delle madri relegate ad angelo del focolare, in un eterno ritorno. Un focolare che può pure tramutarsi in un incendio, ma è destinato ad esaurirsi, trascinando con sé distruzione e morte. Non il sentimento religioso, tuttavia, che ha bisogno delle sue icone sanguinanti (il manifesto del film allude all'estetica dei santino) e delle sue reliquie sacre.

Il finale e la morale del film sono la copia carbone (lì in chiave sarcastica, qui in chiave più tragica) dell'ultima sequenza de Le Bonheur (Il verde prato dell'amore) di Agnès Varda del 1965. Ma mentre quest'ultimo s'apriva alle speranze d'un Sessantotto all'insegna delle lotte per l'emancipazione femminile in arrivo, il film di Aronofsky sembra chiudere quella stagione nel sangue del femminicidio di massa.

Madre! è, di certo, un lavoro controverso, soprattutto per un paio di sequenze. Controverso, però, anche perché incerto tra la diagnosi e la denuncia. Tuttavia, la provocazione non è fine a se stessa, come ho provato qui ad argomentare. Aronofsky, pur nella non del tutto riuscita interpretazione dei due attori principali (mi è piaciuta molto, invece, Michelle Pfeiffer), ci propone una riflessione di grande respiro, che riesce a mettere lo spettatore con le spalle al muro. Lo costringe a mettersi in gioco. Una volta salito sulla giostra, gli tocca fare il giro completo. Le scene d'azione e i movimenti di camera di questa giostra sono di grande effetto e realizzati benissimo. Il tempo del racconto, con le sue accelerazioni e decelerazioni ed una struttura a uroboro, vera e propria eterocronia, è perfettamente dosato. Un ulteriore merito del regista è quello d'aver proposto un'intuizione ed uno sguardo diversi e ad alto impatto cinematografico, sebbene con tutti i rischi del caso. Si tratta di cinema vero e - come si dice - terribilmente sul pezzo. Per me è un "sì" convinto.

domenica 16 febbraio 2020

Licht (B. Albert, 2017)

Un gran film di Barbara Albert sulle cose che si vedono, ma soprattutto su quelle che NON si vedono, e tuttavia si “sentono”. Un saggio su esperienza sensibile e conoscenza, ma in ultima analisi su normalità e devianza. Un percorso multi-sensoriale in cui spiccano una splendida fotografia e una perfetta selezione di brani classici. Da “vedere”... e da “sentire”.

mercoledì 12 febbraio 2020

Still life (U. Pasolini, 2013)

Questo è un gran film! Spietatamente, ferocemente emozionante. Una riflessione sulla vita dalla prospettiva della morte. Un'indagine su ordine e caos, stasi e moto. Sarebbe stato bene nei Dubliners di Joyce, che raccontava la paralisi della sua città, o in una canzone dei Beatles. Avete presente Eleanor Rigby? Ecco, Still life (2013), di Uberto Pasolini, ne è praticamente l'adattamento. Eddie Marsan, nei panni di John May, è un interprete indimenticabile e perfetto! Se c'inciampate, fermatevi a vederlo.

domenica 12 gennaio 2020

L'adultera (Beröringen, I. Bergman, 1971)

Come toccava certe corde dell'anima Ingmar Bergman, forse nessuno. L'adultera (Beröringen), del 1971, è considerato un suo film "minore", e non l'avevo mai visto. E' ritornato al cinema, restaurato, nell'aprile del 2018. Mi è piaciuto davvero tanto! La recitazione è d'alta scuola (Gould, Andersson, von Sydow). Il motivo principale della colonna sonora è sublime. La fotografia dell'immenso Sven Nykvist è arte.

Il verde prato dell'amore (Le Bonheur, A. Varda, 1965)

Le Bonheur (trad. it. "Il verde prato dell'amore") è un ferocissimo film di Agnès Varda sulla condizione femminile, camuffato da una messa in scena fiabesca, con colori saturatissimi ed il sontuoso contrappunto della musica di W.A. Mozart. 

Il montaggio è affilatissimo ed espressivo, e già da solo merita una menzione. 

Che fine fanno le principesse, dopo aver trovato il principe azzurro? Qui c’è una risposta, e non è la più rassicurante. 

Riflessione di grandissima forza politica, considerato che siamo alla pre-vigilia del Sessantotto. Orso d'Oro a Berlino '65.

La pivellina (T. Covi e R. Frimmel, 2009)

La pivellina (2009) di Tizza Covi e Rainer Frimmel è un film-verità: sincero, tenero, profondamente politico. Ricorda il nuovo cinema tedesco (Werner Herzog, su tutti), Silvano Agosti o John Cassavetes. La piccolissima "Aia", nella parte della trovatella, è perfetta e incredibile: non si smette d'ammirarla con stupore per tutto il tempo. Film-ricerca, con sprazzi documentaristici, che parla della dignità, della civiltà e delle risorse degli ultimi e degli invisibili, di accoglienza e solidarietà. Un augurio e una speranza per tutti. Un film M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-O!

Una vampata d'amore (Gycklarnas afton, I. Bergman, 1953)

Bergman che riflette sulla vita come rappresentazione (il circo, il teatro), su scena e retroscena, su paura e desiderio, forse anche sulle finzioni della società borghese. Non avevo mai visto Una vampata d'amore (meglio il titolo originale: "Sera di un saltimbanco") (1953) e mi è piaciuto davvero molto. Fotografia fortemente espressionista, i toni esistenzialisti che torneranno nel Settimo Sigillo, recitazione d'alta scuola. Solo gli sguardi di Harriet Andersson (sì, la protagonista di Monica e il desiderio) valgono il prezzo del biglietto. Una sinfonia in minore. Una meraviglia!

Alice nelle città (Alice in den Städten, W. Wenders, 1973)

Ma che bello che è "Alice nelle città"! Non lo vedevo da tanto, tanto tempo. Per un po', è stato quasi introvabile. Ma vogliamo parlare degli sguardi di Alice e di sua madre? Perché non ci sono più sguardi così al cinema? Sarà proprio cambiato il nostro modo di guardare. Sarà certamente così. E poi c'è lo sguardo del primo Wenders. Quello non si scorda mai! In noleggio su Chili a due soldi...

Sexy diabolic story (Les possédées du diable, J. Franco, 1974)

I Franco sono come gli esami: non finiscono mai; ma il maestro è sempre il maestro. Qui con alcune sequenze iconiche e ultrabizzarre (quella dei granchi, ad esempio), incorniciate da design e architetture moderniste, e con l'incredibile personaggio glam di Lorna, una sorta di demone camp, interpretato da Pamela Stanford. Inutile, poi, rimarcare la commovente bellezza di Lina Romay. Above the average!

La mort de Louis XIV (A. Serra, 2016)

Ne La mort de Louis XIV (2016), di Albert Serra, il simbolo della Nouvelle vague (Jean-Pierre Léaud) impersona il simbolo dell'ancien régime (Luigi XIV). Per ulteriore contrasto, il Re Sole è raccontato nel buio claustrofobico della sua camera di morte (anzi, più esattamente, del suo letto, dal quale non s'alzerà più), mentre attorno a lui si discute e si riflette su scienza, fede e... magia. Il corpo ammalato e martoriato del Re, intanto, s'incancrenisce; l'uomo è ridotto alle sue funzioni biologiche e corporali: l'aura e il potere si disfano. Nella mistica dell'ancien régime, il corpo del re faceva tutt'uno con il suo popolo; il discorso, così, non può che diventare politico e toccare il tema del potere (compresa la sua solitudine) nelle sue varie forme (c'è tanto Foucault nella messa in scena del regista Albert Serra). Un film quasi puro nella forma, fotografato (si potrebbe dire dipinto) con tutte le tonalità di colore della putrefazione e degli atlanti settecenteschi d'anatomia, durissimo e terrificante, anche se a tratti sarcastico, e con un finale sulla speranza negativa davvero angosciante (e attualissimo). Recitazione gigantesca di Jean-Pierre Léaud.

November (R. Sarnet, 2017)

È probabile che il peccato originale sia il peccato della conoscenza. Per la conoscenza, si può fare un patto col diavolo. Ma la conoscenza è anche amore. E anche per amore si possono fare patti col diavolo....

November (2017), di Rainer Sarnet, è un film-mondo (alludo qui alla categoria di Franco Moretti), poetico e crudele, visionario e sublime.

Sospeso tra favola e tragedia, senza un’inquadratura fuori posto e con una fotografia spietata, Sarnet ci serve la sua indecidibile teodicea dell'altrove.

Capolavoro imperdibile, per chi pensa al cinema come esperienza della visione!

Magic in the Moonlight (W. Allen, 2014)

Allen gioca a mischiare le carte, come un consumato prestidigitatore, e architetta una gran storia, che affronta con (apparente) leggerezza temi giganteschi. L’ambientazione, alla vigilia del 1929, in Europa, non è affatto casuale. Una parabola, un’operetta morale, senza verdetto, su scienza e fede, ragione e sentimento, filosofia e prassi, nella migliore tradizione ebraico-newyorkese. Forse, oggi, lo può girare solo lui un film così. Uno dei migliori della fase più recente del regista. All'inizio ti diverti, ma a film finito cominciano a banchettare gli spiriti. E non c'è verso di farli smettere.

venerdì 10 gennaio 2020

L'amore ai tempi del colera (G.G. Márquez, 1985)

Era giunto il momento.

Alla vigilia del mio mezzo secolo (tanto quanto ci mette Florentino Ariza a "ritrovare" l'impossibile Fermina Daza), era giunto il momento di leggerlo. 

L'amore ai tempi del colera (1985), di Gabriel García Márquez, è un romanzo che mi ha rapito, travolto e alla fine commosso. Mi è sembrata una profonda riflessione sul limite e i limiti, in ogni senso. Anche quelli formali, dello stile.

Márquez ti accompagna a vederlo, il limite, te lo fa guardare e anche studiare, ti ci fa abituare, addomesticandoti. È come se ti trattenesse un attimo prima di farti cadere nell'abisso. Con le esperte mosse d'un rettile esotico, spesso ti depista (talora con gli inaspettati effetti comici d'un film muto d'inizio secolo, ma senza giungere al ridicolo), ti colpisce e poi ti divora. A cominciare da quel finto allestimento da romanzo ottocentesco, che pare d'intravedere all'inizio, e che tanto assomiglia ad un'esca letale. Infatti, sei caduto nella trappola perversa e stratificata d'un romanzo del Novecento.

Lussureggiante e lussurioso (ma non osceno, e soprattutto incentrato sull'erotismo fiero e dissacrante di cui solo le donne sono capaci), ti conduce sin da subito in un indecidibile altrove letterario. Le pagine del libro, che traboccano d'insuperabili descrizioni del Caribe e affilate riflessioni che appartengono alla "filosofia della vita" dei personaggi, compongono una preziosa Bibbia pagana dell'esperienza, dalla quale torni ossessivamente a recitare i versetti sacrileghi.

Finisce con un movimento in minore che lascia sospesi e, al contempo, invecchiati di cent'anni. È un capolavoro che non consola, ma ristora, perché è tutto emozione e vita. È qualcosa che - come il desiderio - non si può riferire, ma solo vivere. E non finisce mai. Diavolo d'uno scrittore!