sabato 28 giugno 2014

Les derniers jours du monde (A. e J-M. Larrieu, 2009)

"This is the way the world ends, not with a bang but a whimper" (È così che finisce il mondo, non con uno scoppio, ma con un piagnucolio). Così T.S. Eliot, nel 1925, terminava la poesia The Hollow Men (Gli uomini vuoti). Nel caso del film di Arnaud e Jean-Marie Larrieu, e parafrasando Eliot, potremmo scrivere: "È così che finisce il mondo, non con uno scoppio, ma con un orgasmo". 

Les derniers jours du monde è un curioso film di fantascienza, ambientato in un immediato futuro, che racconta le avventure picaresche, per lo più amorose, di Robinson (ogni riferimento al romanzo di Defoe è puramente voluto), in un mondo morente a causa dell'inquinamento, delle epidemie, d'una guerra nucleare.

Il film comincia col protagonista (Mathieu Amalric), che entra in una cartoleria per comprare un taccuino, su cui vorrebbe scrivere delle memorie, mentre si trova in villeggiatura. Tuttavia, non lo trova, perché le scorte si stanno esaurendo, e finisce col comprare un ricettario di cucina, per usarne le pagine meno piene. Il suo progetto (e non solo quello) naufragherà presto, e il ricettario non servirà neanche a suggerire a Robinson delle pietanze dignitose da cucinare. Ma il fallimento di Robinson è metafora d'un fallimento più grande: l'impossibilità di scrivere il presente, o di affidarsi alle conoscenze consolidate, in un'epoca di crisi (Fig. 1).


Fig. 1 - Quali "ricette" per un mondo che cambia?

La difficoltà di raccontare la crisi si traduce, a livello formale, nell'utilizzo di piani temporali diversi (flashback, fughe in avanti, sottostorie), che restituiscono un quadro piuttosto difficile da seguire. Robinson incontra e ha rapporti con uomini e donne, che sembrano tutti ansiosi di sfidare la fine dell'esistenza col sesso. Alla ricerca d'una petite mort (come chiamano i francesi l'orgasmo) che possa esorcizzare la grand mort. Emblematica è l'orgia nel bunker (Fig. 2), prima dell'apocalisse, e tenerissimo l'addio di Iris (Fig. 3). Ricordo che il film è tratto da un romanzo di Dominique Noguez, intitolato Amour Noir (Gallimard). 

Fig. 2 - Not with a bang, but a...


Fig. 3 - L'addio di Iris

Ma il film non è cupo, anzi è a tratti ironico, come nella sequenza in cui un Cristo appare sugli schermi di tutti i computer (Fig. 4), o come quando Robinson guida un camper in compagnia d'un perplesso barbagianni (Fig. 5). Il contesto apocalittico viene spesso vissuto con nonchalance. E c'è pure un tocco di surrealismo: ad esempio, quando il moncherino di Robinson scompare nelle sequenze con l'amata Lea (la modella Omahyra) e diventa una protesi in altre. L'amore è cieco, cancella i difetti, e prescinde anche da un mondo che si sta rapidamente sfarinando.
 
Fig. 4 - L'ultima pagina di Internet

Fig. 5 - All'avventura!

Les derniers jours du monde è, tutto sommato, un film dignitoso, con buoni momenti di cinema, in cui infastidisce un po' la recitazione catatonica di Amalric, la confusione dei piani narrativi, e probabilmente un non perfetto dosaggio degli ingredienti (troppi?). Bellissima la modella Omahyra, ma ancor di più Clotilde Hesme (Iris)Indeciso. (3/5)

giovedì 26 giugno 2014

Il conformista (B. Bertolucci, 1970)

Ci sono due sequenze del Conformista (1970) di B. Bertolucci che, a mio avviso, ne riassumono compiutamente il senso.

Nella prima, Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant) si trova ad una festa e, dopo avere avuto una discussione col professor Quadri (Enzo Tarascio), viene accerchiato da un vortice di persone danzanti, che lo spingono a ballare, nonostante egli non ne abbia tanta voglia. È turbato perché lo ha appena tradito, il professore: ha, infatti, comunicato alla polizia politica fascista (impersonata da Gastone Moschin) il luogo e l'occasione in cui potranno trovarlo da solo, per ucciderlo. È la società che, simbolicamente, lo accerchia, e lo spinge a fare ciò che, di sua sponte, non farebbe. È la società che lo porta a conformarsi (vedi la Fig. 1).

Fig. 1 - Marcello Clerici circondato dai festanti

Nella seconda sequenza, Clerici insegna a recitare l'Ave Maria alla figlioletta (vedi la Fig. 2), lui che per tutta la vita ha rifiutato e combattuto il cattolicesimo. La stanza della bambina, così come tutta la casa, è piena d'immagini e oggetti sacri, che serviranno a prepararla all'incombente epoca democristiana, dopo la parentesi fascista; ciò che accomunerà (quasi) tutti gli italiani, i quali, fino a poco tempo prima, avevano espresso il loro consenso convinto al Regime (senso di déjà vu, eh?). Aveva ragione Elias Canetti: «la massa, d'improvviso, c'è là dove prima non c'era nulla», e poi tende a crescere, e si stabilizza trasformandosi in religione (lo "stato di massa mitigato"), rendendo tutti conformi tramite i suoi sluagh-ghairm.


Fig. 2 - Clerici prepara la figlia al mondo che verrà

Ma è, probabilmente, nei titoli di testa che Vittorio Storaro fotografa perfettamente la figura di Marcello Clerici, con una luce rossa che lo illumina in modo intermittente, lasciandolo a tratti immerso nelle tenebre, come a sottolinearne l'ambiguità (vedi la Fig. 3).

Nel 1949, R.K. Merton, riflettendo sulle cause della devianza, aveva indicato cinque possibili combinazioni nel rapporto tra le mete che la società propone di raggiungere agli individui e i mezzi che mette loro a disposizione per ottenerle. Il "conformismo" è una di queste combinazioni, che si dà quando una persona accetta sia le mete sia i mezzi che ha a disposizione. È questo il conformismo di cui ci parla Bertolucci (e il romanzo di Moravia, da cui è tratto il film)? Ebbene, no! Il conformismo di Marcello Clerici ha un altro nome nello schema mertoniano, prede il nome "ritualismo", e consiste nell'adattarsi ai mezzi, pur non condividendo le mete. È l'atteggiamento di chi "va sul sicuro", si accontenta, non osa, segue le regole anche quando queste sono palesemente ingiuste, o dolorose da accettare (vedasi la sequenza in cui Marcello deve rassegnarsi al sacrificio della bellissima Dominique Sanda, nei panni di Anna Quadri. Una sequenza d'alta scuola di regia). Ce lo confessa lo stesso Clerici, alla fine del film, quando dice ad una moglie (Stefania Sandrelli) che recita il ruolo di mera comparsa nella propria vita, e che ha sposato per darsi una tranquilla dimensione piccolo-borghese: «Farò quello che faranno quelli che la pensavano come me. Quando si è in tanti, non si corrono rischi». Per Merton, il ritualismo è una forma di devianza, non meno grave del furto.

Fig. 3 - L'ambiguità di Clerici evocata nei titoli di testa

Il film di Bertolucci è raccontato operando su più piani temporali, che si intersecano e sovrappongno in modo non lineare, anche qui a sostengo della doppiezza che si nasconde dietro la confromità. È girato benissimo, in modo nuovo rispetto ai lavori precedenti del regista, in certi momenti facendo uso di veri e propri virtuosismi e audaci movimenti di macchina, e splendidamente fotografato. Ma c'è più stile che cuore, un po' come in Marcello Clerici (il cui profilo, in molti frangenti, assomiglia in modo impressionante a quello di Silvio Berlusconi: un destino!).

Tra le svariate chiavi di lettura del film, vi è ovviamente anche quella dell'ipocrisia borghese, che propone una raffigurazione posticcia e ritualistica della vita pubblica, ma si concede il lusso d'una vita privata "fuori squadra". E così, Clerici desidera Anna, che s'è invaghita della signora Clerici, che a un certo punto sembra potersi concedere al professore. Per non parlare del "santino" della tradizionale famiglia borghese, qual è quella di Marcello, sotto la cui patina si nascondono una madre tossicomane ed un padre con problemi psichiatrici (forse, come conseguenza della sifilide); mentre lo stesso Clerici, da giovanetto, è stato oggetto di abusi da parte dell'autista di famiglia (di qui, anche una possibile lettura psicanalitica della vicenda del protagonista). Insomma, ce n'è abbastanza per demolire ogni illusione di buona società, anche quando si potevano tenere le porte aperte, senza paura d'essere derubati, ed i treni erano puntuali... Raffinato (3/5).

martedì 24 giugno 2014

I buchi neri (P. Corsicato, 1995)

I buchi neri sono ciò che rimane dopo la morte d'una stella. Sono regioni dello spazio-tempo con un campo gravitazionale così forte, che nulla al loro interno può più sfuggire verso l'esterno. Secondo la teoria della relatività generale, il campo gravitazionale è prodotto dalla deformazione dello spazio-tempo, dovuta alla presenza d'una massa enorme. Lo spazio viene talmente "curvato", che tutto ciò che gli sta intorno gli cade dentro, come un liquido attratto da un gorgo. E proprio da questa immagine inizia il secondo lungometraggio di Pappi Corsicato, dopo Libera del 1993. Qui il liquido (l'urina) non è certo nobile, e il buco nero (un cesso) tutt'altro che spettacolare, ma il senso è quello.

Adamo (Vincenzo Peluso), il protagonista della storia, lascia il "fidanzato" (rimasto letteralmente in mutande) e torna al paesello, in seguito alla morte della madre. Qui viene attratto dal campo gravitazionale di altri buchi neri (e stavolta la metafora allude agli orifizi corporei), anche questi capaci d'attirare con una forza invincibile qualunque cosa gli stia attorno, come recita un vecchio adagio dell'Italia del Sud, in cui il film è ambientato ("Tira di più un pelo di sticchio in salita, che un carro di buoi in discesa"). Ovviamente, succedono cose strane, come del resto prevede la relatività einsteiniana. Difatti, il film sfrutta tutte le tonalità del grottesco e dell'assurdo, per restituircene la complessità. E così, mischiando Pasolini con Russ Meyer, Buñuel con Almodovar, Andy Warhol con i vecchi peplum, senza dimenticare la commediaccia italiota degli anni Settanta (di passaggio, viene addirittura esplicitamente citato San Pasquale Baylonne protettore delle donne, il film con Lando Buzzanca), Corsicato riesce a comporre un film davvero (ec)centrico; un altrove, nell'asfittico panorama del cinema indigeno degli anni Novanta (e non solo). Un film fotografato benissimo, bagnato da una luce accecante, e recitato con divertimento (c'è pure una Manuela Arcuri piuttosto ruspante).

I buchi neri, questi invincibili poli d'attrazione nelle nostre esistenze - pare che sia questa la morale del film - sono prodotti dall'"ammore", che tutto mischia e attrae, costruisce e smonta, sana e ammorba. E così, nei frequenti collassi della calura erotica, pure le cose più assurde si possono verificare. Tra i freaks di Corsicato (soprattuto donne) non manca nulla: una muta che canta, un vecchio che ha parlato con gli extraterrestri, una vergine gravida, un'adolescente col corpo d'una vecchia... Sono stranezze che fanno diventare assolutamente normale (perché più plausibile) l'ambiguità omosex di Adamo (bravò!). Sono stranezze che si trasformano in "miracoli" agli occhi d'un sottoproletariato pop meridionale che, come voleva Pasolini, hanno (avevano?) ancora conservato per un attimo fuggente l'esperienza del magico, prima dell'ecatombe antropologica prodotta dalla TV. 

A proposito, l'ultima considerazione è di natura "politica". Ho finalmente visto la versione del film uscita nelle sale, perché ero in possesso d'una copia trasmessa in TV. O, forse, dovrei dire "massacrata" in TV. Ma è mai possibile trattare un film (peraltro, uno degli migliori film italiani degli anni Novanta) in questo modo? Tanto vale rinunciare a trasmetterlo. Questi sì che sono buchi neri! Weird. (4/5)

Alcune sequenze del film

domenica 22 giugno 2014

The Devil in Miss Jones (G. Damiano, 1973)

The Devil in Miss Jones è, probabilmente, il titolo di maggior pregio d'una stagione irripetibile nella storia del cinema: quella della Golden Age del porno, tra l'inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, prima dello sciagurato avvento del VHS. Gerard Damiano, che aveva già diretto Deep Throat, un anno prima, anche in questo caso in veste di sceneggiatore e montatore, oltre che di regista, raggiunge qui uno dei suoi vertici espressivi, elevando il porno ad una dignità che, dopo la prima metà degli anni Ottanta, non si ripeterà più, salvo le poche incursioni nell'hardcore da parte di autori provenienti dal cinema più colto (non ultima, quella di Lars von Trier con il suo Nymph()maniac), sebbene con registri diversi.

In Miss Jones, Damiano parte dal tòpos freudiano che contrappone Eros e Thanatos, in Jenseits des Lustprinzips (1920). L'espediente adottato per l'esordio del film è quanto di più straniante di possa immaginare in una pellicola porno, e cioè la morte violenta, il suicidio della protagonista. In un'atmosfera livida e angosciante, sostenuta dalla suggestiva musica di Alden Shuman (all'epoca si facevano le cose in grande!), Georgina Spelvin, nei panni di Justine Jones, in un supremo atto di autodeterminazione, si taglia le vene e si lascia morire nella vasca da bagno. Altrettanto spiazzante è il fatto che la protagonista del film non sia affatto avvenente. La faccia è (apparentemente) struccata, segnata dall'angoscia, dal dolore, dagli anni; e il corpo è abbondante e ordinario. Queste scelte stilistiche sono fondamentali, a mio avviso, nella decostruzione di quel male gaze che - secondo Laura Mulvey - caratterizza il cinema da sempre, e che nel porno raggiungerebbe il suo punto più estremo. Ebbene, non in Miss Jones. Che, se non costituisce una rivoluzione dello sguardo in versione female gaze, gli si avvicina tuttavia moltissimo.

Justine (nomen omen) muore e, prima di raggiungere la sua "destinazione finale", staziona nella camera d'un traghettatore, per le "formalità" del caso. Nonostante sia vergine (sic!), non è stata perdonata per il peccato più grande: essersi tolta la vita. Caronte le dice che "lassù" perdonano tutto, ma non questo peccato. Justine, allora, non si dà pace, s'arrabbia, si dispera, e propone un patto al traghettatore: la possibilità di godere, per la prima volta e per un breve periodo, l'esperienza del sesso, prima di tornare all'Inferno. Il traghettatore glielo concede.

A questo punto, inizia il percorso di "conoscenza" di Justine, che infatti viene affidata ad un insegnante (Harry Reems, già protagonista di Deep Throat), per sperimentare questa nuova, fondamentale dimensione dell'esistenza. La prima cosa che l'insegnante dice a Justine è che non deve vergognarsi del suo corpo, perché quel corpo, fatto in quel modo, irsuto, ordinario, formoso, è ciò che piace agli uomini (siamo nei rutilanti Seventies, gente!) Il tema della conoscenza e dell'autocoscienza diventa centrale nel film: il sesso è conoscenza, e forse per questo è, ça va sans direpeccato. Di qui, tutta un'evocazione di simboli biblici (Eva, la mela, il serpente), il cui significato viene ovviamente "dirottato" su referenti alternativi, più trasgressivi. 

La mise en scène di Damiano (così come la fotografia) è magistrale, nulla di più diverso dalla volgarità (nell'etimo) del porno odierno, alla faccia di decenni di media pornification; insuperata, sia per capacità tecnica, di composizione del quadro, per l'abilità di trovare ardite soluzioni figurative, sia per la capacità di suscitare quel sexual arousal che, alla fine, è l'unità di misura fondamentale in questo genere di cinema. 

Il paradosso e il dramma, tuttavia, è che miss Jones è morta, è un fantasma, e il suo godimento, in definitiva, impossibile, inappagabile, nonostante la grande varietà delle esperienze provate. La coazione a ripetere è una condanna. E forse la riflessione di Damiano è ancora più alta. Probabilmente, la sua, è proprio una riflessione sulla irrappresentabilità dell'atto e del piacere sessuale, come voleva André Bazin. L'Inferno in cui si ritrova miss Jones, alla fine del film, è sconcertante e terribile; niente fuoco e fiamme, nessun riferimento all'affollato catalogo dell'arte antica e moderna, bensì il vuoto, l'assenza. Pareti bianche (della serie, come ti sfrutto al massimo l'assenza di risorse finanziarie, per fare grande cinema). È la presenza di un uomo e una donna, che non si possono comunicare i corpi. Lui folle, lei condannata a un desiderio inesauribile ed eterno. Che è poi, in ultima analisi, e senza scomodare Lacan, anche l'Inferno della condizione umana. 

Riuscire a realizzare un porno metafisico era impossibile. Damiano c'è riuscito. Post-femminista. (4/5)

martedì 10 giugno 2014

Tutti per uno (A Hard Day's Night, Richard Lester, 1964)

C'è tutta un'estetica in A Hard Day's Night, l'estetica pop dei primi anni Sessanta. C'è l'ultimo bianco e nero del Novecento, prima che diventi make-up. C'è il modernariato d'una tecnologia elettronica che, di lì a poco, avrebbe cambiato il mondo. C'è il vertice più alto della musica d'intrattenimento giovanile; grandissimo artigianato, che sarebbe diventato in un anno e mezzo, con la pubblicazione di Revolver prima, e Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band poi, vera e propria Arte del suono. E c'è un'ingenuità di fondo, che sarebbe presto scomparsa per sempre dalla cultura popolare; un'ingenuità cui l'assassinio di JFK, nel '63, aveva già inferto un colpo mortale. 

È, dunque, con grande nostalgia che si (ri)vede il film di Richard (Dick) Lester; un film che risulta - anche dopo 50 anni - ancora fresco, veloce, scintillante, nonostante sia distante anni luce dalla koinè di MTV. I dialoghi surreali e intelligenti sono da antologia di letteratura inglese. Le trovate nella mise-en-scène a tratti geniali. I riferimenti alla storia del cinema pre-1964 si sprecano: dalla nouvelle vague ai fratelli Marx, dallo slapstick alla commedia americana, fino al cinéma vérité

La settima arte, l'esperienza della visione, si fondono perfettamente col pop beatlesiano, e anzi ne costituiscono probabilmente le ragioni del successo planetario e senza tempo. Senza il cinema, e soprattutto la TV (opportunamente "omaggiata" nel film, con più d'una allusione all'Ed Sullivan Show), il fenomeno Beatles non sarebbe mai esistito. Ma quella TV non era la TV di oggi, era la TV delle "cerimonie del vero". E A Hard Day's Night, in fondo, non fa altro che raccontare la realtà di ciò che accadeva in quegli anni nei (e attorno ai) Beatles, omettendo, certo, gli eccessi della band, che l'iconografia ufficiale voleva invece perfettamente integrata, ed espressione dell'ideologia d'una giovane classe media in ascesa; e, allo stesso tempo, edulcorando paradossalmente certi aspetti estremi della Beatlemania. Ma se il rock è autenticità, e il pop iperrealismo, qui si raggiunge una perfetta, sublime via di mezzo. Da una parte, infatti, il sudore sui volti di John e Paul è incontrollabile, dall'altra il film possiede i meccanismi perfetti d'un orologio svizzero. 

E poi c'è la musica, che "sparata" negli altoparlanti delle moderne sale di proiezione 3D continua a stupire e deliziare le orecchie, senza conoscere cedimento alcuno, come se fosse stata registrata oggi. E quando, nello show finale, esplodono le armonizzazioni vocali di She loves you, non puoi non battere i piedi, respirare lo Zeitgeist del 1964, e chiederti che cosa sia successo oggi alla popular music, di quale malattia soffra, come mai certe canzoni scadano, come le mozzarelle, dopo tre giorni, come mai tutta la tecnologia di oggi riesca solo ad animare, per una breve stagione, degli zombie musicali.

Un film da non perdere (neanche i titoli di coda, che sono un'opera d'arte in sé). Un film che fa bene al cuore e alla mente. Ricostituente. (5/5)

Il trailer

Per approfondire: S. Arcagni, P. Gep Cucco, G. Michelone, Il cinema dei Beatles, Falsopiano, Alessandria, 1998.

domenica 8 giugno 2014

Sociologia del cinema fantastico


La trilogia del Signore degli Anelli è una delle più grandi imprese cinematografiche mai realizzate. Per studiarne l’impatto sull’audience, è stato intrapreso un vasto e importante progetto di ricerca internazionale, coordinato dal prof. Martin Barker dell’Università di Aberystwyth (UK). Il volume presenta i lavori di ricerca dell’unità italiana del progetto, condotti da un gruppo di sociologi delle università di Palermo, Messina e del Salento. Tali risultati sono inquadrati in una più ampia riflessione sul rapporto fra cinema, società e genere fantastico; una riflessione che considera la ricezione del film in una dimensione allargata, di carattere intertestuale e intermediale (stampa, televisione, Internet, giochi di ruolo, ecc.), cercando di mettere in luce anche l’ambiguo ruolo dell’industria culturale. Il libro è rivolto a studiosi di sociologia che intendano approfondire il rapporto tra cinema e società, non rinunciando ad impegnarsi in un percorso metodologico eclettico, ma assolutamente rigoroso. Esso può risultare anche utile agli studiosi di cinema, che vogliano conoscere gli strumenti e le potenzialità della ricerca sociale in questo settore.

A. Trobia (a cura di), Sociologia del cinema fantastico. Il Signore degli Anelli in Italia: audience, media, mercato, Kaplan, Torino, 2008.

mercoledì 4 giugno 2014

Maps to the Stars (D. Cronenberg, 2014)

Le relazioni incestuose (nell'etimo, "non caste", "impure") generano mostri (almeno, nella vulgata comune). E Maps to the stars è un film di mostri, un horror contemporaneo, diretto da un suo padre nobile. Qui l'orrore deriva, in ultima analisi, dall'inautenticità e dalla finzione, dalla falsità e dal cinismo degli esseri umani. 

Cronenberg aggiunge un altro prezioso tassello alla sua riflessione sull'atto della rappresentazione, sul rapporto tra corpo, psiche e tecnologia, degno erede - in questo - della Scuola di Toronto (da M. McLuhan a D. de Kerckhove), indagando sul regno della finzione per eccellenza. Ecco il cinema, dunque, come metafora della inautenticità dei rapporti umani nel mondo contemporaneo, così dominato dal denaro e dalla tecnologia. Non una semplice incursione nel retroscena goffmaniano di ognuno di noi, si badi bene, bensì una cinica riflessione su un mondo diventato postumano, come già profetizzato dallo stesso Cronenberg in altri lavori. La monetizzazione (anche in senso lato) di qualsiasi aspetto della vita viene qui denunciato in modo drammaticamente crudo e senza "schermi", non risparmiando nemmeno i bambini, ridotti a replicanti impazziti con una vita limitata per effetto di mutazioni genetiche incestuose. Mentre la denuncia retroagisce, a sua volta, sul cinema stesso come industria. 

In questo fragile scenario di cartapesta, assistiamo alla morte delle stelle, cui aveva dedicato una riflessione l'Edgar Morin de Les Stars, già nel 1957. In quel libro, Morin parlava della degradazione della star a individuo comune, alle prese con la realtà e i suoi problemi, come risposta all'"effetto di verità" prodotto dalla televisione, allora in ascesa. Se non che, la rincorsa all'effetto di verità si è presto tradotto in oscenità (emblematica, in questo senso, la scena con la Moore, seduta sul cesso, alle prese col suo meteorismo), che nella lettura che ne ha fatto Jean Baudrillard è l'irruzione del retroscena sul proscenio, l'ostentazione di ciò che dovrebbe rimanere "fuori dalla scena" (una delle cifre, questa, della società contemporenea). Così, il divo non solo diventa uomo della strada, ma può essere toccato, (con)tattato, anche se per il tramite della tecnologia (Twitter, Facebook). Anche in questo caso, tuttavia, un "toccare" inautentico, strumentale.

Nel film, la speranza morale è un fantasma innocente, bambino, che esce dai corpi martoriati fisicamente e psicologicamente, per giustiziare il "vero", ormai diventato, letteralmente, in-guardabile: sui corpi (con le cicatrici prodotte dalle ustioni), sugli schermi (col fallimento della rappresentazione cinematografica: nessun film in lavorazione, infatti, si riesce, per vari motivi, a completare), nella società (che si difende ipocritamente, delegando una risposta agli psicofarmaci e a una sessualità come performance che ha abbandonato il desiderio, diventando porno, come affermava Carmelo Bene).

Nella cornice d'una sceneggiatura da premio, ottime le recitazioni di Julianne Moore e Mia Wasikowska. Bravo anche un Robert Cusack, qui - per fortuna - irriconoscibile. 

Sono sicuro che, fra qualche tempo, questo film si guadagnerà lo status di capolavoro, ma bisognerà assorbire piano la botta. Imprescindibile. (5/5)

Trailer

martedì 3 giugno 2014

Social Network Analysis

L'analisi di rete è una tecnica che affonda le proprie radici nella sociologia classica, ma ha conosciuto un'enorme crescita solo negli ultimi vent'anni. Tra i suoi sviluppi vanno considerati il ricorso a software sempre più raffinati, ma allo stesso tempo "amichevoli", e l'applicazione in campi diversi da quelli previsti inizialmente. Essa, inoltre, è riuscita a superare alcuni "peccati originali", spesso oggetto di critiche severe, proponendosi oggi come uno degli strumenti più potenti nella cassetta degli attrezzi dello scienziato sociale. Il volume intende introdurre il lettore italiano alla social network analysis e ai suoi sviluppi più recenti senza tuttavia rinunciare alla semplicità dell'esposizione. Il taglio è infatti didascalico, in quanto fa ricorso a esempi pratici e tralascia i formalismi matematici in favore delle applicazioni passo passo al computer. Il testo è rivolto a studenti e ricercatori che vogliano iniziare a conoscere questa tecnica a partire dal suo uso concreto, con gli strumenti più aggiornati, avendo la possibilità d'impiegarla in modo originale.


La pagina ufficiale del libro


A. Trobia, V. Milia, Social Network Analysis, Roma, Carocci, 2011.


Omicron (U. Gregoretti, 1963)

La prospettiva del Mar(x)ziano? Per comprenderla appieno, ci si può gustare questo piccolo, grande film di Ugo Gregoretti, anno di grazia 1963, con un Renato Salvatori in formissima (e a tratti, sorprendente), ed una pungente satira della società del boom economico; ma, in fondo, anche di oggi. Quasi, quasi, verrebbe da farci un corso di sociologia. Anche solo la sequenza citata sotto, merita una visita...

Una sequenza del film

Stelle sulla Terra (Taare Zameen Par, A. Khan, 2007)

Fatevi un grande regalo: cercate e ammirate questo film. E' di una bellezza commovente, indimenticabile, etica. Non credo ci si possa regalare nulla di più bello. Dedicato alle mamme e ai papà, a tutti i bimbi (anche quelli cresciuti) e ai loro maestri, e alla difficile arte di "riconoscersi" e crescere... in tutti i sensi.

lunedì 2 giugno 2014

L'ultima donna (M. Ferreri, 1976)

Uno straordinario trattato sociolologico sulla coppia contemporanea. Un film incredibile, spiazzante, disturbante; poetico e visionario. Certo, non per tutti. Grande cinema da parte di un grande maestro. Raro da trovare... E non credo che verrà mai passato in TV, se non martoriato dalla censura.

Import/Export (U. Seidl, 2007)

Storie di ordinaria miseria nell'Europa post-capitalista e post-crescita. Un viaggio alla fine della Storia. Società liquide, senza confini, globali, ma perennemente periferiche. Anche nei valori. Una regia entomologica. Un film agghiacciante.

Simona (P. Longchamps, 1972)

Film folle come una fiaba. Al confine tra sublime e ridicolo, molto più sbilanciato sul secondo. Le velleità arthouse, infatti, imboccano presto la stada del trash. Lo salva un certo gusto visionario (bella la sequenza degli abiti neri nel bosco, e quella degli animali impagliati che si animano), e la bellezza di Laura Antonelli.

Il gatto dagli occhi di giada (A. Bido, 1977)

Giallazzo alla Dario Argento niente male! Bei momenti di suspense, e qualche effettaccio truce ben congegnato. Musica all'altezza, che in questi film è essenziale. C'è pure Franco Citti. Sorpresa.

Sweet Bunch (Glykia symmoria, Nikos Nikolaidis, 1983)

Ecco un film anarchico, nel tema e nello stile. Un incipit da antologia. Uno sviluppo surreale, sarcastico, amorale. Poche comodità sul piano diegetico. Una critica feroce alla società dei consumi. Con uno Stato occhiuto, guardone, ma impotente. Un film politico senza la politica. Elegante ma rivoluzionario, come un tango. Quattro stelle (che non fanno una costellazione).

A due passi dall'inferno (La campana del infierno, C. Guerìn, 1973)

Interessante film alla Egdar Allan Poe, il cui simbolismo ha certamente influenzato il regista Guerìn. Non è del tutto coerente esteticamente, ma si fa apprezzare per alcuni riferimenti a certe illustrazioni scientifiche tardo ottocentesche (ad esempio, la casa di John/Juan). Non privo di continue sorprese, lascia però molti spunti incompiuti (ad esempio, le vicende della ragazzina insidiata dai vecchi del villaggio). Finale davvero molto bello e...

Blind love (Waisetsu sutêji: Nando mo tsukkonde, Daisuke Gotô, 2005)

Crudo, eppure romantico. Realistico, eppure sognante. Divertito, eppure mélo. Un film breve che, alla fine, non delude. Un piccolo trattato sulla comunicazione in amore. Dignitosissimo per essere un pinku. Finale bello. Sette pieno.

Animal Love (Tierische Liebe, U. Seidl, 1996)

Un film paralizzante e disgustoso! Come la vita nelle periferie delle post-società. Una vita da cani, dove in realtà sono i cani a consolare gli uomini e le donne, visto che non lo possono fare altri uomini e altre donne. E però, i cani sono sempre "altri" e molto spesso sfuggono, non comprendono, non completano, come suggerisce il finale spiazzante del film. Si astengano i romantici...

Lunacy (Sílení, J. Svankmajer, 2005)

Confesso che non sapevo dell'attività registica di Svankmajer nei lungometraggi non di animazione. Questo Lunacy è davvero straordinario! Un film-saggio che pare riprendere ed ampliare il discorso Pasoliniano iniziato (e tragicamente terminato) con Salò. L'introduzione del regista è da film d'altri tempi, come in certo cinema pedagogico o documentaristico di tanti anni fa. Il film è strutturato in brevi capitoli, intervallati dalla "carne animata" di Svankmajer, che producono un potente effetto di straniamento. I riferimenti letterari sono a Poe, de Sade, Breton e, sebbene non esplicitamente, anche alla saggistica antipsichiatrica. Inutile dire che l'impatto visivo è doloroso e accecante. Le citazioni iconografiche sono abbondanti e la blasfemia incontrollata. Un film lussuoso e amorale, colto, disturbante. Avanguardista.

Inferno e passione (Egon Schiele, Exzess und Bestrafung, H. Vesely, 1981)

Film che ricostruisce alcuni episodi della vita del grandissimo Egon Schiele. Putroppo, un lavoro incompiuto e un po' inconcludente. Non c'è un approfondimento psicologico dei protagonisti. Non c'è l'erotismo tragico di Schiele (ma che bella Jane Birkin!) E neanche si può dire che sia un film didascalico, considerate le numerose omissioni (ad esempio, il rapporto con Gustav Klimt è solo accennato). Il tutto è fotografato, girato e montato in brutta calligrafia, con uno stile proprio fuori sincrono. Insomma, ci si può tenere tranquillamente alla larga da questo film, e godersi piuttosto le traumatiche opere di Schiele.

Canino (Kynodontas, G. Lanthimos, 2009)

Oltre George Orwell: principi applicati di "neolingua". Un film mostruoso, agghiacciante, sconvolgente, amorale. Un esperimento sociologico portato alle estreme conseguenze, che svela i condizionamenti di ogni individuo. La famiglia come istituzione totale. C-A-P-O-L-A-V-O-R-O-!

Trailer

Oltre l'Eden (L'éden et après, A. Robbe-Grillet, 1970)

Film assoluto! Immagine e colore, al di là del senso. Geometrico come un'opera di Mondrian. Saggio sulla rappresentazione. Cinema allo specchio, specchio del cinema. Da VEDERE!

Una sequenza del film

The Fabulous Baron Munchausen (Baron Prášil, K. Zeman, 1961)

Appoggiandosi a Jules Verne, Georges Méliès, la fantascienza degli anni Cinquanta e ai libri illustrati per bambini a tre dimensioni (oggi si chiamano pop-up!), ecco un viaggio fantastico in compagnia dell'Homme Lunaire, del Barone di Munchausen e della principessa Bianca. Un grandissimo film, alla faccia degli effetti speciali più recenti e computerizzati. Poetico, stupefacente, ironico, surreale. Film per tutti: non ho mai visto le mie bimbe così divertite davanti alla tv, ed è un film che risale all'anno di grazia 1961... Regalatevi questa visione per un'occasione speciale. Meraviglioso!

Rivelazioni di un Maniaco Sessuale al Capo della Squadra Mobile (R. Montero Bianchi, 1972)

Filmazzo di Montero Bianchi, il cui modello di riferimento è palesemente Mario Bava. E' fatto molto bene da un punto di vista tecnico; ma l'eleganza pop di Bava è inarrivabile. Dialoghi al limite del ridicolo, infarciti di qualunquismo, stereotipi e luoghi comuni. Omissivo in merito a nomi, contesti, luoghi, ruoli, politica, ecc. Questa, probabilmente, una delle ragioni del successo all'estero del film. Dove Montero Bianchi, invece, è imbattibile, è nel tirar fuori i pruriti della borghesia italiana degli anni Settanta. Naturalmente, come è suo costume, non ci vengono risparmiate le grazie (in tutte le "salse") delle vittime del maniaco. In questo senso, è obbligatorio vedere la versione uncut del film. Decisamente volgare, ma val bene una (s)vista.

Rivelazioni di un Maniaco Sessuale al Capo della Squadra Mobile (titoli di testa)

The Devil Came From Akasava (J. Franco, 1971)

La migliore serie zeta cinematografica in circolazione. Film abbastanza casto di Jess Franco. Pasticcio pop, confuso e fumettistico, che gioca con i temi dei film di spionaggio. Risulta, almeno, divertente. Le incongruenze sono innumerevoli, ça va sans dire; ma la ciccia c'è (e non solo quella di Soledad Miranda...). Esotico.

Una sequenza del film

9 Songs (M. Winterbottom, 2004)

Un film come quelle estati scandinave: un'esplosione improvvisa di vita; il gelo prima, il gelo dopo. Durante la visione, mi sono chiesto cosa mai abbia spinto Winterbottom a girare un film de(l) genere, al di là d'una possibile riflessione sul classico binomio sex & rock. Un xxx con ambizioni artistiche? O un mainstream movie con ambizioni xxx? A me non ha convinto, anche se il film non lascia indifferenti. La soundtrack è bella: Super Furry Animals, Franz Ferdinand, Elbow, Nyman. Proprio la musica di quest'ultimo vale tutto il film, nel riuscire a trasmettere quel languore che rimane anche alla fine della visione. Sembra un film inutile, anche se non si scorda facilmente. Forse il problema è la mancanza di una mediazione "poetica". Vietatissimo ai minori.

9 Songs (trailer)

Cuore di mamma (S. Samperi, 1969)

Incredibile film politico (in senso lato) di Salvatore Samperi. Nonostante sia stato giudicato negativamente dalla critica, a me è piaciuto molto: per la sua "apertura", per alcune soluzioni estetiche (bellissimo, ad esempio, il razzo sulla spiaggia), per la recitazione degli attori (anche dei più piccoli!), per la fotografia. Alcuni hanno rimproverato a Samperi la gratuità di certe sequenze erotiche o di nudo. Secondo me, invece, sono del tutto giustificate dal clima malsano del ménage familiare, e contribuiscono a capire la polimorfa perversità del figlio della Gravina. Certo, probabilmente sono troppo didascaliche la parti più esplicitamente politiche. La politicità del film, infatti, non va trovata, paradossalmente, nelle parti più politiche. Comunque, un Samperi inaspettato e una felice sorpresa.

domenica 1 giugno 2014

Femmine carnivore (Die Weibchen, Z. Brynych, 1970)

Femmine carnivore è uno sconosciutissimo filmazzo ultrapop di Zibì Brynych. Onirico, visionario, ma solo a tratti surreale, con un montaggio da capogiro e un muzak lisergico da intenditori, il film pare avere numerosi debiti nei confronti del maestro Russ Meyer. Le "femmine" del titolo sono cattivissime (come mantidi) e folli, e i maschi vittime predestinate dei loro appetiti. Siamo in pieno cinema bis, ma il film è grande artiginato delle immagini. Cinema REM.

Femmine carnivore (opening)

Maleficent (R. Stromberg, 2014)

Molto, molto bello dal punto di vista figurativo, con la riuscita evocazione di un'antica iconografia nord europea; ma non è un film perfetto. In non poche occasioni manca il ritmo (peccatissimo!), fuori parte - a mio avviso - Sam Riley (una specie di Jack White fuor d'acqua), non sfruttato a dovere il 3D in chiave espressiva. Non mi è dispiaciuta, invece, la rilettura in chiave "female gaze" di Stromberg, anche se si tende troppo al didascalico, lasciando poco spazio all'ermeneutica. La bellezza della Jolie toglie il respiro. Queer. (3,5/5)

Maleficent (trailer)

Godzilla (Godzilla, G. Edwards, 2014)

Ma che brutto 'sto film! Gli stupendi titoli iniziali accendono subito la nostalgia di chi vedeva Godzilla e Gamera nella sale di terza visione delle città di provincia, negli anni sessanta e settanta. E, invece, l'"americanata" è dietro l'angolo. Certo, gli effetti speciali sono in modalità 2014, e talvolta la vertigine e il gioco riescono a prendere il sopravvento. E c'è un certo gusto per l'inquadratura fuori centro. E sì, il messaggio ecologico è condivisibile. Ma, suvvia, nulla a che fare con Hinoshiro Honda. Nostalgia canaglia! (2/5)

Godzilla (trailer)

Gigolò per caso (Fading Gigolo, J. Turturro, 2013)

Bel film, quest'ultimo di John Turturro, ambientato in una New York off the road, suggestivamente fotografata in stile Seventies dall'italiano Marco Pontecorvo. Bongo (Woody Allen) e Virgilio (nom de plume del riservato Fioravante-Turturro) si mettono in affari nel settore dei "servizi per signore", ma alcuni "imprevisti" ne intralciano i piani... All'inizio del suo Massa e Potere (1960), Elias Canetti scriveva che: «tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati». Le distanze sociali sono varie: tra uomini e donne (e tra donne e donne), tra adulti e bambini, tra neri e bianchi, tra adepti di religioni diverse. E' curioso come tutte queste distanze vengano chiamate in causa, scomposte come la luce da un prisma, in questo piccolo film, solo a prima vista intimista, che - in effetti - presenta più d'uno spunto sociologico. Tuttavia, in parte come conseguenza, appunto, del "toccare" sensuale, da parte di Virgilio, alcune distanze sembrano quasi collassare, ridursi, mutare forma. E non mancano le sorprese. Ottimi gli attori: la Paradis, che ha abbandonato da tempo (e si vede) il tassista Joe, e Turturro su tutti (un po' meno la Stone, nonostante la parte le stia a pennello: saranno le acconciature?). Bella da svenire la Vergara, la quale - come dice Allen nel film - ha un corpo che sembra sfidare le leggi della fisica. Degno di nota, il fatto che il film, nonostante l'argomento, non scada mai nel volgare; anzi, ricorra spesso ad ellissi d'altri tempi. Un po' tirato via in qualche momento, ma un bel film, che merita più d'un solo spettatore pagante in sala (sic!). PS. Atroce la traduzione del titolo originale. (4/5)

Gigolò per caso (trailer)