domenica 12 gennaio 2020

L'adultera (Beröringen, I. Bergman, 1971)

Come toccava certe corde dell'anima Ingmar Bergman, forse nessuno. L'adultera (Beröringen), del 1971, è considerato un suo film "minore", e non l'avevo mai visto. E' ritornato al cinema, restaurato, nell'aprile del 2018. Mi è piaciuto davvero tanto! La recitazione è d'alta scuola (Gould, Andersson, von Sydow). Il motivo principale della colonna sonora è sublime. La fotografia dell'immenso Sven Nykvist è arte.

Il verde prato dell'amore (Le Bonheur, A. Varda, 1965)

Le Bonheur (trad. it. "Il verde prato dell'amore") è un ferocissimo film di Agnès Varda sulla condizione femminile, camuffato da una messa in scena fiabesca, con colori saturatissimi ed il sontuoso contrappunto della musica di W.A. Mozart. 

Il montaggio è affilatissimo ed espressivo, e già da solo merita una menzione. 

Che fine fanno le principesse, dopo aver trovato il principe azzurro? Qui c’è una risposta, e non è la più rassicurante. 

Riflessione di grandissima forza politica, considerato che siamo alla pre-vigilia del Sessantotto. Orso d'Oro a Berlino '65.

La pivellina (T. Covi e R. Frimmel, 2009)

La pivellina (2009) di Tizza Covi e Rainer Frimmel è un film-verità: sincero, tenero, profondamente politico. Ricorda il nuovo cinema tedesco (Werner Herzog, su tutti), Silvano Agosti o John Cassavetes. La piccolissima "Aia", nella parte della trovatella, è perfetta e incredibile: non si smette d'ammirarla con stupore per tutto il tempo. Film-ricerca, con sprazzi documentaristici, che parla della dignità, della civiltà e delle risorse degli ultimi e degli invisibili, di accoglienza e solidarietà. Un augurio e una speranza per tutti. Un film M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-O!

Una vampata d'amore (Gycklarnas afton, I. Bergman, 1953)

Bergman che riflette sulla vita come rappresentazione (il circo, il teatro), su scena e retroscena, su paura e desiderio, forse anche sulle finzioni della società borghese. Non avevo mai visto Una vampata d'amore (meglio il titolo originale: "Sera di un saltimbanco") (1953) e mi è piaciuto davvero molto. Fotografia fortemente espressionista, i toni esistenzialisti che torneranno nel Settimo Sigillo, recitazione d'alta scuola. Solo gli sguardi di Harriet Andersson (sì, la protagonista di Monica e il desiderio) valgono il prezzo del biglietto. Una sinfonia in minore. Una meraviglia!

Alice nelle città (Alice in den Städten, W. Wenders, 1973)

Ma che bello che è "Alice nelle città"! Non lo vedevo da tanto, tanto tempo. Per un po', è stato quasi introvabile. Ma vogliamo parlare degli sguardi di Alice e di sua madre? Perché non ci sono più sguardi così al cinema? Sarà proprio cambiato il nostro modo di guardare. Sarà certamente così. E poi c'è lo sguardo del primo Wenders. Quello non si scorda mai! In noleggio su Chili a due soldi...

Sexy diabolic story (Les possédées du diable, J. Franco, 1974)

I Franco sono come gli esami: non finiscono mai; ma il maestro è sempre il maestro. Qui con alcune sequenze iconiche e ultrabizzarre (quella dei granchi, ad esempio), incorniciate da design e architetture moderniste, e con l'incredibile personaggio glam di Lorna, una sorta di demone camp, interpretato da Pamela Stanford. Inutile, poi, rimarcare la commovente bellezza di Lina Romay. Above the average!

La mort de Louis XIV (A. Serra, 2016)

Ne La mort de Louis XIV (2016), di Albert Serra, il simbolo della Nouvelle vague (Jean-Pierre Léaud) impersona il simbolo dell'ancien régime (Luigi XIV). Per ulteriore contrasto, il Re Sole è raccontato nel buio claustrofobico della sua camera di morte (anzi, più esattamente, del suo letto, dal quale non s'alzerà più), mentre attorno a lui si discute e si riflette su scienza, fede e... magia. Il corpo ammalato e martoriato del Re, intanto, s'incancrenisce; l'uomo è ridotto alle sue funzioni biologiche e corporali: l'aura e il potere si disfano. Nella mistica dell'ancien régime, il corpo del re faceva tutt'uno con il suo popolo; il discorso, così, non può che diventare politico e toccare il tema del potere (compresa la sua solitudine) nelle sue varie forme (c'è tanto Foucault nella messa in scena del regista Albert Serra). Un film quasi puro nella forma, fotografato (si potrebbe dire dipinto) con tutte le tonalità di colore della putrefazione e degli atlanti settecenteschi d'anatomia, durissimo e terrificante, anche se a tratti sarcastico, e con un finale sulla speranza negativa davvero angosciante (e attualissimo). Recitazione gigantesca di Jean-Pierre Léaud.

November (R. Sarnet, 2017)

È probabile che il peccato originale sia il peccato della conoscenza. Per la conoscenza, si può fare un patto col diavolo. Ma la conoscenza è anche amore. E anche per amore si possono fare patti col diavolo....

November (2017), di Rainer Sarnet, è un film-mondo (alludo qui alla categoria di Franco Moretti), poetico e crudele, visionario e sublime.

Sospeso tra favola e tragedia, senza un’inquadratura fuori posto e con una fotografia spietata, Sarnet ci serve la sua indecidibile teodicea dell'altrove.

Capolavoro imperdibile, per chi pensa al cinema come esperienza della visione!

Magic in the Moonlight (W. Allen, 2014)

Allen gioca a mischiare le carte, come un consumato prestidigitatore, e architetta una gran storia, che affronta con (apparente) leggerezza temi giganteschi. L’ambientazione, alla vigilia del 1929, in Europa, non è affatto casuale. Una parabola, un’operetta morale, senza verdetto, su scienza e fede, ragione e sentimento, filosofia e prassi, nella migliore tradizione ebraico-newyorkese. Forse, oggi, lo può girare solo lui un film così. Uno dei migliori della fase più recente del regista. All'inizio ti diverti, ma a film finito cominciano a banchettare gli spiriti. E non c'è verso di farli smettere.

venerdì 10 gennaio 2020

L'amore ai tempi del colera (G.G. Márquez, 1985)

Era giunto il momento.

Alla vigilia del mio mezzo secolo (tanto quanto ci mette Florentino Ariza a "ritrovare" l'impossibile Fermina Daza), era giunto il momento di leggerlo. 

L'amore ai tempi del colera (1985), di Gabriel García Márquez, è un romanzo che mi ha rapito, travolto e alla fine commosso. Mi è sembrata una profonda riflessione sul limite e i limiti, in ogni senso. Anche quelli formali, dello stile.

Márquez ti accompagna a vederlo, il limite, te lo fa guardare e anche studiare, ti ci fa abituare, addomesticandoti. È come se ti trattenesse un attimo prima di farti cadere nell'abisso. Con le esperte mosse d'un rettile esotico, spesso ti depista (talora con gli inaspettati effetti comici d'un film muto d'inizio secolo, ma senza giungere al ridicolo), ti colpisce e poi ti divora. A cominciare da quel finto allestimento da romanzo ottocentesco, che pare d'intravedere all'inizio, e che tanto assomiglia ad un'esca letale. Infatti, sei caduto nella trappola perversa e stratificata d'un romanzo del Novecento.

Lussureggiante e lussurioso (ma non osceno, e soprattutto incentrato sull'erotismo fiero e dissacrante di cui solo le donne sono capaci), ti conduce sin da subito in un indecidibile altrove letterario. Le pagine del libro, che traboccano d'insuperabili descrizioni del Caribe e affilate riflessioni che appartengono alla "filosofia della vita" dei personaggi, compongono una preziosa Bibbia pagana dell'esperienza, dalla quale torni ossessivamente a recitare i versetti sacrileghi.

Finisce con un movimento in minore che lascia sospesi e, al contempo, invecchiati di cent'anni. È un capolavoro che non consola, ma ristora, perché è tutto emozione e vita. È qualcosa che - come il desiderio - non si può riferire, ma solo vivere. E non finisce mai. Diavolo d'uno scrittore!