venerdì 10 gennaio 2020

L'amore ai tempi del colera (G.G. Márquez, 1985)

Era giunto il momento.

Alla vigilia del mio mezzo secolo (tanto quanto ci mette Florentino Ariza a "ritrovare" l'impossibile Fermina Daza), era giunto il momento di leggerlo. 

L'amore ai tempi del colera (1985), di Gabriel García Márquez, è un romanzo che mi ha rapito, travolto e alla fine commosso. Mi è sembrata una profonda riflessione sul limite e i limiti, in ogni senso. Anche quelli formali, dello stile.

Márquez ti accompagna a vederlo, il limite, te lo fa guardare e anche studiare, ti ci fa abituare, addomesticandoti. È come se ti trattenesse un attimo prima di farti cadere nell'abisso. Con le esperte mosse d'un rettile esotico, spesso ti depista (talora con gli inaspettati effetti comici d'un film muto d'inizio secolo, ma senza giungere al ridicolo), ti colpisce e poi ti divora. A cominciare da quel finto allestimento da romanzo ottocentesco, che pare d'intravedere all'inizio, e che tanto assomiglia ad un'esca letale. Infatti, sei caduto nella trappola perversa e stratificata d'un romanzo del Novecento.

Lussureggiante e lussurioso (ma non osceno, e soprattutto incentrato sull'erotismo fiero e dissacrante di cui solo le donne sono capaci), ti conduce sin da subito in un indecidibile altrove letterario. Le pagine del libro, che traboccano d'insuperabili descrizioni del Caribe e affilate riflessioni che appartengono alla "filosofia della vita" dei personaggi, compongono una preziosa Bibbia pagana dell'esperienza, dalla quale torni ossessivamente a recitare i versetti sacrileghi.

Finisce con un movimento in minore che lascia sospesi e, al contempo, invecchiati di cent'anni. È un capolavoro che non consola, ma ristora, perché è tutto emozione e vita. È qualcosa che - come il desiderio - non si può riferire, ma solo vivere. E non finisce mai. Diavolo d'uno scrittore!

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