domenica 12 aprile 2020

La vita negoziabile (L. Landero, 2018)

Una lettura godibilissima, sostenuta da una fantasia effervescente. Un racconto che mischia parecchi generi: dal giallo al feuilleton, fino alla storia curiosa dell'unico santo all'inferno: Garcinuño. Una variazione, sebbene non esplicitata da Luis Landero, sul tema della sincronicità junghiana ("Ignoravo che le cose importanti e decisive, quelle che attribuiamo pomposamente al destino o al bisogno, hanno quasi sempre origine da episodi insignificanti e persino ridicoli, di certo casuali", "In una frazione di secondo ci si può trasformare in una canaglia o in un santo"), che ispira un principio di vita che dà il titolo al romanzo: la negoziabilità dell'esistenza. Al centro, un non-luogo emblematico, attorno al quale ruotano molte delle vicende raccontate: il salone del parrucchiere ("Cosa sono i negozi dei parrucchieri se non piccole università popolari?"). Landero ci propone una riflessione su caso e destino alla fine cinica ("Ecco com'era il mondo, un imbroglio, un luogo ripugnante dove non c'era posto per la purezza", "La legge della sopravvivenza vince sugli imperativi etici") e rassegnata ("L'abitudine semplifica tutto e lo trasforma in qualcosa di piacevole", "Ci si gira e ci si rigira fino a trovare una posizione più o meno comoda. Tutto qui"), in cui svolgono un importante ruolo i segreti, le bugie, il silenzio, e dove non c'è probabilmente spazio per l'amore. Da leggere.

Naboer (P. Sletaune, 2005)

Naboer (Next door) (2005) di Pål Sletaune è un grande, claustrofobico, impressionante film norvegese sulla violenza di genere. Niente affatto banale, con un ritmo perfetto, un paio di sequenze da ricordare e un tocco di surrealismo, vince a mani basse il titolo di "filmissimo". Uno dei cinque film norvegesi vietati ai minori di 18 anni in patria. Una gemma nascosta, ma pericolosa.

Madre! (Mother!, D. Aronofsky, 2017)

Madre! è un film diretto dal regista Darren Aronofsky nel 2017 e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nello stesso anno. Racconta le vicende d'una coppia di sposi, che si trovano a fronteggiare l'arrivo d'alcuni ospiti inattesi nella loro nuova casa.

Dopo un brevissimo prologo, il cui senso si finisce per comprendere nell'ultima sequenza, il film ci introduce in una grande casa isolata, in mezzo al verde d'una campagna indefinita. Vi abita una coppia, di cui non conosciamo i nomi: lui (interpretato da Javier Bardem) è un poeta maturo e in crisi d'ispirazione; lei (Jennifer Lawrence), molto più giovane di lui, si dedica alla ristrutturazione della casa e alle consuete faccende domestiche.

Emerge così il primo motivo conduttore del film. Un motivo sociologico. L'organizzazione della casa, infatti, sembra obbedire alle regole dell'impianto patriarcale classico, in cui, mentre l'uomo è impegnato a scrivere un nuovo poema, attorno al quale gravitano tutte le attività domestiche (un poema ch'è metafora del lavoro, della realizzazione, del successo personale), la donna assiste il marito, il "capofamiglia", nell'atto faticoso e cruciale della creazione (la poiesis, difatti), scegliendo di rimanere sullo sfondo. Un impianto in cui, però, manca ancora l'ultimo tassello, e cioè un figlio, affinché possano completarsi le tradizionali funzioni sociali della famiglia borghese. Una lesione da riparare.

La casa (Heim, in tedesco), però, viene presto invasa da una serie d'estranei, che sembrano minacciarne la tenuta. L'aspetto sinistro, spaesante, perturbante (Unheimliche, nel lessico Freudiano) di questa irruzione sposta immediatamente il discorso dal piano sociologico a un piano psicologico più profondo. Lo straniero, infatti, è sia fuori sia dentro di noi. Il disagio dello spettatore monta rapidamente, sottolineato dai frenetici movimenti della macchina da presa, il giro sulla giostra comincia e l'angoscia alza la temperatura delle vicende. Il registro stilistico s'indirizza verso la dimensione onirica, surreale, del sogno o meglio dell'incubo, dove il perturbante spadroneggia. Il senso sembra deragliare a più riprese, aprendo spazi alle pulsioni primarie e ad una violenza, in varie forme, che ne è diretta conseguenza. Non sembra azzardato, qui, riconoscere un debito specifico al Buñuel dell'Angelo sterminatore.

Il discorso sociologico, tuttavia, non passa affatto in secondo piano. L'origine del perturbante, infatti, è sociale. Viene da una società che ha il cancro (è il cancro?) (il riferimento è ad uno dei personaggi del film). La solo apparente armonia della coppia è disturbata, strappata, ferita dalle persone che continuano a irrompere in casa. I segni non mancano: si rompono oggetti, si feriscono parti del corpo, si guastano apparecchi. La "società" s'infila anche negli aspetti più intimi della coppia, rendendola instabile, vulnerabile, incapace di resistere ad una pressione potentissima, potrebbe essere quella della ristrutturazione neocapitalistica del mondo di oggi, per la quale risulta fondamentalmente impreparata, come ci racconta la sociologia contemporanea. La casa isolata, incompleta e fratturata ne è la metafora più efficace. Inutile fare progetti, ambire alla perfezione, illudersi: «Andrà tutto bene, tutto a posto, ce la farai. Sai una cosa? La vita non sempre va come realmente desideri», dice lui. «Hai ragione: la mia lo dimostra», risponde lei. Per inciso, solo a seguito di questa epifania, di questa presa di coscienza - diventata terapeutica - di un'alienazione immanente, ha luogo l'unico evento doppiamente fecondo del film. Certo, al costo di mettere letteralmente sotto il tappeto la ferita sanguinante della "casa", delle istituzioni borghesi.

Nella seconda parte del film, entra in scena la forza devastante del biopotere sugli individui. Viene inaugurato un terzo tema, quello del corpo, che nella tradizione biblica è la "casa" di Dio. La casa, e dunque anche il corpo, non sono "di proprietà" della protagonista, la quale di suo non ha neanche il nome. Ciò le viene ricordato, quasi beffardamente, da vari intrusi, ogni qual volta lei urla disperata: "Questa è la mia casa!". Spunti e spazi foucaultiani, a partire dall'eterotopia già rappresentata dalla casa, sembrano spuntare da ogni lato. La società dei maschi elegge, venera e celebra il leader e il profeta, crea religioni e fa la guerra, sfrutta o degrada le donne, ne sacrifica i figli (prima figli di Dio e poi vittime di quel potere), strappa a vivo il cuore delle madri relegate ad angelo del focolare, in un eterno ritorno. Un focolare che può pure tramutarsi in un incendio, ma è destinato ad esaurirsi, trascinando con sé distruzione e morte. Non il sentimento religioso, tuttavia, che ha bisogno delle sue icone sanguinanti (il manifesto del film allude all'estetica dei santino) e delle sue reliquie sacre.

Il finale e la morale del film sono la copia carbone (lì in chiave sarcastica, qui in chiave più tragica) dell'ultima sequenza de Le Bonheur (Il verde prato dell'amore) di Agnès Varda del 1965. Ma mentre quest'ultimo s'apriva alle speranze d'un Sessantotto all'insegna delle lotte per l'emancipazione femminile in arrivo, il film di Aronofsky sembra chiudere quella stagione nel sangue del femminicidio di massa.

Madre! è, di certo, un lavoro controverso, soprattutto per un paio di sequenze. Controverso, però, anche perché incerto tra la diagnosi e la denuncia. Tuttavia, la provocazione non è fine a se stessa, come ho provato qui ad argomentare. Aronofsky, pur nella non del tutto riuscita interpretazione dei due attori principali (mi è piaciuta molto, invece, Michelle Pfeiffer), ci propone una riflessione di grande respiro, che riesce a mettere lo spettatore con le spalle al muro. Lo costringe a mettersi in gioco. Una volta salito sulla giostra, gli tocca fare il giro completo. Le scene d'azione e i movimenti di camera di questa giostra sono di grande effetto e realizzati benissimo. Il tempo del racconto, con le sue accelerazioni e decelerazioni ed una struttura a uroboro, vera e propria eterocronia, è perfettamente dosato. Un ulteriore merito del regista è quello d'aver proposto un'intuizione ed uno sguardo diversi e ad alto impatto cinematografico, sebbene con tutti i rischi del caso. Si tratta di cinema vero e - come si dice - terribilmente sul pezzo. Per me è un "sì" convinto.