sabato 28 novembre 2015

Youth (P. Sorrentino, 2015)

Youth (2015), di Paolo Sorrentino, è un film che si potrebbe studiare per anni. Un capolavoro, anche migliore de La grande bellezza, che - bisogna dirlo - aveva i suoi punti ciechi. Questo, invece, no.

Provo qui a riassumere solo alcune coordinate che possano consentire una prima lettura di questo suo ultimo lavoro, e magari ispirarne altre.

La prima, e più scontata, dimensione di analisi è quella prodotta dalla contrapposizione tra gioventù e vecchiaia. Si tratta del vero e proprio motore diegetico del film, i cui ingranaggi sono costituiti da dialoghi brillanti e profondi, densi e toccanti, ironici o imprevisti. Dialoghi che non sembrano mai fuori posto, anche quando si immaginerebbero tutt'altre parole dette da tutt'altre persone.

Meno evidente, forse, è la seconda dimensione, che invece vede contrapporsi natura e cultura. La natura si esprime nei paesaggi stupendi, fotografati da Luca Bigazzi, e nei corpi delle persone. La cultura, invece, si esprime nella Weltanshauung dei personaggi, nelle loro letture del mondo, nelle loro posture intellettuali, ma anche nella musica in tutte le sue varie forme (primitive, classiche, popolari).

Mentre nel primo confronto, giovinezza vs. vecchiaia, è la prima a vincere; nel confronto fra cultura e natura, è la seconda a prevalere. 

La giovinezza prevale come spirito al di là dei corpi invecchiati. Ad esempio, la giovinezza del sentimento amoroso. Come non ricordare, a tal proposito, quel passaggio di Cent'anni di solitudine, che fa: "Ma quando lei entrava in casa, allegra, indifferente, chiacchierona, lui non doveva fare nessuno sforzo per dissimulare la sua tensione, perché quella donna, la cui risata esplosiva spaventava le colombe, non aveva nulla a che vedere col potere invisibile che gli insegnava a respirare dentro e a controllare i battiti del cuore, e gli aveva permesso di capire perché gli uomini hanno paura della morte". Si badi, tuttavia, che - come detto - è la giovinezza come spirito, e non l'essere anagraficamente giovani, che vince il duello. Sembra delinearsi, in tal senso, una differenza tra "giovinezza" (di spirito) e "gioventù" (anagrafica). Rispetto a questa differenza, i giovani non ne escono benissimo. Esemplare è la figura della piccola prostituta, che fa da specchio deformante di una realtà prefabbricata e ignorante.

La natura, dal canto suo, prevale deterministicamente sulla cultura, anche quando non ne possiede le forme culturalmente più apprezzate (la pelle invecchiata del professor Ballinger, la bruttezza dell'antagonista di Lena Ballinger, l'epa deformata di Maradona, etc.), dimostrando di poter accedere a forme "altre" d'efficacia e d'efficienza. In alcuni casi, con una forza destabilizzante. Un tema rothiano, virato dal bianco e nero al colore. 

Queste due dimensioni di senso, incrociandosi ortogonalmente, sembrano disegnare uno spazio cartesiano, lungo il quale si muove tutto il film, occupando di volta in volta uno dei quattro quadranti: vecchiaia+natura, vecchiaia+cultura, giovinezza+natura, giovinezza+cultura. All'origine degli assi troviamo l'energia che fa muovere tutto dialetticamente, e cioè le emozioni (più volte esplicitamente chiamate in causa nel film). Queste ultime sono spesso accese dal tocco dell'altro/a, il che spiega perché il film si svolga quasi interamente nel perimetro di un centro di benessere e massaggi. La potenza del toccarsi risulta dirompente in vari momenti, e sembra riproporre da una diversa prospettiva la vecchia riflessione di Elias Canetti: "Nulla l'uomo teme di più che essere toccato dall'ignoto. [...] Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. [...] Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come sentiamo noi stessi. D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo" (Massa e Potere, trad. it. Adelphi, Milano, 1981, pp. 17-18).

Lascio al lettore più curioso e diligente il piacere di esplorare tutti questi incroci, provando a farsi strada con la luce emessa delle varie declinazioni dell'emozione: la meraviglia, la malinconia, l'orgasmo, la paura, il desiderio, la gioia. Non ne resterà deluso.

Con la solita maestria tecnica, inaugurata da un'inquadratura in stile Fassbinder a inizio film e culminata nell'evocativo movimento dei lettini alla fine del dialogo tra Fred e Lena Bellinger, una colonna sonora evocativa e ben impaginata, grandissime prove d'attore (su tutti Caine e Fonda), e un altissimo coefficiente di significato su cui poter rimuginare a fine proiezione, Paolo Sorrentino ci regala l'ennesimo gigafilm, senza risparmiarsi una goccia d'intelligenza e d'inventiva. Lui entra ufficialmente nei miei preferiti, mentre il film, consigliato a tutti, è da vedere e rivedere nel tempo. Una "gioventù" che non invecchierà mai. Ricostituente. 5/5... con lode.

lunedì 9 novembre 2015

Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts (S. Martino, 2015)

L'attesa (o hype, come dicono gli anglofoni) per Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts era grande; almeno per me e per gli affezionati lettori, che da decenni seguono le strisce di Schulz e i cartoni animati trasmessi in TV negli anni Settanta e Ottanta. Un'attesa ripagata? Lo dico senza giri di parole: no.

Certo, il film è curatissimo dal punto di vista tecnico (forse troppo?), e bisogna dire che le texture impiegate per "rivestire" le amatissime noccioline e il cane Snoopy, all'inizio, fanno il loro effetto. Purtroppo, però, qui finiscono i pregi del film.

La prima cosa che si nota subito è la mancanza di passo, di ritmo. La sceneggiatura è molle come un budino, le sequenze s'interrompono bruscamente, i personaggi sembrano mimare se stessi. Probabilmente, nel fare una sorta di "Bignami" dell'universo di Schulz, regista e sceneggiatori si sono persi per strada: troppa roba, e nemmeno originale. Sì, interessante l'idea di un "film nel film", per farci partecipare dell'antropomorfa e obliqua fantasia di Snoopy, che però alla lunga risulta assai prolisso e perfino noioso rispetto all'andamento rapsodico della narrazione centrale.

Ma veniamo alle cose davvero imperdonabili.

La prima riguarda la colonna sonora. Benissimo il recupero dei brani di Vince Guaraldi (tra parentesi, imperdibile la lettura di George Winston, nell'album Linus and Lucy: The Music of Vince Guaraldi), ma perché contaminarla con quella nuova canzonaccia, piena zeppa d'effettacci, tipo autotune e compressione a palla? Immagino che l'orrore si spieghi con il tentativo di assecondare e conquistare i gusti dei nuovi, piccoli spettatori, portati al cinema (digitale) da romantici genitori ultraquarantenni. Ma qui si parla dei Peanuts: sono i piccoli che devono imparare a recuperare ed apprezzare questa preziosa eredità del Novecento, e non viceversa! Coraggiosa e condivisibile la scelta di raccontare un mondo bambino, prima della grande rivoluzione tecnologica che ha portato ai millenials e ai nativi digitali; ma, allora, perché questa estetica ipermoderna (posto che non è neanche postmoderna)? La faccenda, insomma, non quadra. Per quanto riguarda la musica, nello specifico, non si poteva - ad esempio - continuare a pescare, come avvenuto in passato, dalla migliore tradizione del songwriting americano? Ma magari è sparito pure quello... 

Il secondo grande peccato mortale è il finale, che ovviamente non svelo qui, ma che grida ancora vendetta. Non è un caso, a mio avviso, che gli si sia voluto porre in qualche modo rimedio nei titoli di coda; titoli di coda che, peraltro, gli spettatori frettolosi, usa e getta, e un po' incolti saltano a pie' pari, per poter finalmente accendere lo smartphone (se l'hanno spento...) e andare a mangiare la "meritata" pizzetta.

Vi sono poi peccati minori di cui s'accorgeranno gli spettatori più "vintage" (o, mi tocca dire, aged): incongruenze interne, incongruenze esterne, discontinuità stilistiche e di linguaggio (Piperita Patty che dà del cane a Snoopy non si può ascoltare! Snoopy è sempre stato: "Quel bambino strano"...). 

Gli effetti collaterali più gravi di queste crepe estetiche e stilistiche sono, in definiva, la spoliazione della poesia, la solubilità improvvisa d'un mondo abbastanza complesso e problematico, caratterizzato da forti tensioni dialettiche (su tutte, quella tra bambini e adulti), l'ironia al ribasso, la mancanza di sublime, e di quel piacevole e invernale languore, che ha reso Snoopy e i suoi amici delle icone del secolo passato, e richiamato l'attenzione di intellettuali quali Umberto Eco. 

Insomma, ecco a voi i Peanuts, levigati e puliti (che Pigpen mi perdoni!), campionati e anestetizzati, masticati e semplificati, e persino politicamente corretti, per conquistare nuovi piccoli ammiratori (e fette di mercato) nel ginepraio dell'ipermodernità debole. Arriverà Natale, ed io andrò a rispolverare le mie vecchie registrazioni in VHS di The Charlie Brown and Snoopy Show. Sarà l'età, ma a me questo Snoopy & Friends ha deluso assai. Compito insufficiente: tutti rimandati a settembre, tranne i tecnici. E siccome la recensione è finita, non mi permetto d'andare a scomodare il professor Martin Heidegger. 2/5