martedì 2 maggio 2017

Klip (M. Milos, 2012)

Klip (2012), di Maja Milos, è il film più desolato, deprimente e senza uscita sulla gioventù contemporanea che mi sia capitato di vedere. Un ritratto generazionale, che assomiglia tragicamente a un mattatoio sociale. 

Un inizio abbastanza scioccante, e siamo subito immersi in una sorta di dimensione parallela, fatta di scatti e riprese con gli smartphone, che documentano la vita di alcune liceali serbe (una, in particolare), in una Belgrado divisa tra gli eccessi delle feste dei millenials e le macerie (non solo fisiche) di una guerra ancora dolente.

La storia dell'esperienza giovanile, si sa, almeno a partire dalla seconda metà del Novecento, è anche storia di eccessi, di musica, droga e sesso (si legga, per una bella ricostruzione delle subculture giovanili spettacolari tra il 1950 e il 2000, il libro di Pedretti e Vivan, Dalla Lambretta allo skateboard, Unicopli). Ciò che, tuttavia, denuncia il film della Milos è l'assenza, qui, di una narrazione che faccia da pretesto all'eccesso, il nichilismo della fine della storia, e - aggiungo io - anche la mancanza di un'estetica del nulla (di cui, peraltro, esistono fulgidi esempi). Il film, infatti, non cela bruttezze d'ogni tipo, anche a costo di negarsi in quanto cinema, di tralasciare la mediazione "poetica" e farsi etnografia (cfr. la Fig. 1).      


Fig. 1 - Post-estetica
Etica ed estetica sono due aspetti spesso complementari nella tradizione classica, e qui ritornano. Al brutto rappresentato sullo schermo si accompagna l'a-moralità (non l'im-moralità, però) dei personaggi, che agiscono senza pretesti, senza moventi. L'amore e la violenza sono senza segno. I protagonisti non sembra che siano in grado di compiere delle scelte, sembrano paralizzati in un eterno presente, e incapaci di sopportare la vita anche nelle cose più piccole (ma ci sono anche quelle grandissime). La regia non formula ipotesi esplicite, pur nondimeno sembra delinearsi una diagnosi impietosa della ristrutturazione neocapitalista della Serbia del dopoguerra. Di qui, come ci ha insegnato il vecchio Durkheim, la deriva anomica degli individui e (quasi) il loro "suicidio" sociale. 


Fig. 2 - Compulsioni

E l'amour? L'amore è sesso (con alcune sequenze molto esplicite nel film), che viene ripetuto compulsivamente, mimando l'estetica delle porno cam, e agito senza un motivo preciso, o come esito dell'uso di sostanze psicoattive. In una sequenza molto significativa, un giovane continua a leggere le notifiche del suo telefonino, mentre una delle protagoniste gli pratica una fellatio (cfr. la Fig. 2). Nessuno dei due sembra essere presente a se stesso/a. Insomma, il sesso non solo non è amore, ma prescinde dall'altro, è sia un rituale sia uno specchiarsi (ovviamente, anche sullo schermo dello smartphone [cfr. la Fig. 3]). E se - come diceva Lacan - non esiste "rapporto" sessuale, qui non esiste però neanche il desiderio.


Fig. 3 - Riflessi su specchi

I corpi sono il centro indiscusso del film. Ed è perché i corpi, nella società contemporanea, dopo la fine dei movimenti, sono diventati una frontiera di resistenza. Sono testi che provano ad articolare una qualche forma di pratica rivoluzionaria, pur essendo minacciati da un biopotere che - come voleva Foucault - ne vorrebbe disciplinare gli ultimi spasmi e le residue energie. Nel film, i corpi dei giovani si mostrano, si fotografano, si filmano continuamente, ma la guerra sembra perduta, mentre i corpi dei padri letteralmente muoiono. Gli adulti, soprattutto gli insegnanti, sembrano zombie, svuotati (incapaci?) di qualsiasi responsabilità nei confronti degli adolescenti.  

Un finale ambiguo non sembra concedere molte speranze allo spettatore e, soprattutto, agli adulti di domani. Le ragazze studiano, non a caso, pedagogia. Quasi una distopia. 3/5

Il trailer del film

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