martedì 18 aprile 2017

Babadook (J. Kent, 2014)

Tra le principali sfide della psicoanalisi vi è quella di riuscire a confrontarsi, elaborare ed incorporare il negativo (Janigro, Psicoanalisi, Mimesis, 2017) e di accettare l'idea che la vita umana non aspira necessariamente al suo bene (Salatino, Lo spettatore arreso, Doppiozero). La psicoanalisi è un percorso in cui il paziente viene posto di fronte ai termini antitetici di un conflitto radicato nell'uomo, che nella seconda topica freudiana, ad esempio, è rappresentata dalla dialettica tra Es, Io e Super-Io, e diventa - nel Freud più maturo - lo "scandalo" delle pulsioni fondamentali di Eros e Thanatos, su cui ritorneranno Lacan e altri.

Ciò che accade in Babadook (2014) di Jennifer Kent è esattamente questo: un confronto con il negativo che sembra fuori di noi, mentre in realtà è lo straniero che è già in noi, nelle nostre stanze chiuse, nelle nostre paure più o meno confessabili. Naturalmente, non si tratta di un tema nuovo nella storia del cinema horror, che la regista infatti omaggia con riferimenti e citazioni che vanno dal Nosferatu di Murnau ai bagliori pop di Mario Bava, e dal Wiene del Dr. Caligari fino a Kubrick e Craven (cfr. le Figure 1 e 2). Il lavoro della Kent si propone più di altri come un film-saggio, che adotta un metodo scientifico e ha la lucidità di chi non ha bisogno del colpo di teatro per catturare lo spettatore. Così, durante il film, abbiamo quasi l'impressione di osservare l'inconscio al lavoro, come in un resoconto psicanalitico; quest'ultimo, già di per sé, dotato di un certa letterarietà (Janigro, cit.). Va osservato, per inciso, come lo stesso setting psicanalitico sembri evocare la sala cinematografica, nel suo essere contemporaneamente luogo di libertà e protezione, che rende possibile sperimentare e gestire l'esperienza del negativo, del male, del dolore, trovandosi al sicuro.

Fig. 1 - Da Caligari...
Fig 2 - ... a Babadook
Il meccanismo che innesca la storia sembra essere a prima vista un lutto: Amelia (la bravissima Essie Davis) perde il marito in un incidente stradale, mentre questi la sta accompagnando all'ospedale per dare alla luce il figlio Samuel (l'inquietante Noah Wieseman). La colpa è servita. Ma è un altro fatto ad aprire una fessura, una crepa (non solo metaforica [cfr. la Fig. 3]) dalla quale entrerà il negativo, e in cui non manca un'allusione di tipo sessuale. Sì, perché sono passati sette anni, e Amelia è segnata dalle rughe, è stanca ed è senza un compagno, ha dedicato la vita al figlio e ora si ritrova adulta, e comincia a intravedere il limite. Come scrive la Janigro: "solo il corpo segna il confine, segnala il limite. Così, le molte tappe che allontanano dall'infanzia, il farsi grandi, l'avvicinarsi all'invecchiamento diventano occasione di analisi". E diventano anche l'occasione per questo film, che è una vera e propria seduta psicanalitica, in cui la protagonista impara lentamente a fare i conti con un rimosso che è durato a lungo, ed è metaforicamente confinato in uno scantinato chiuso da tempo, e al quale il bambino non ha accesso.

Fig. 3 - Il male entra da fessure ed aperture

Questa è la lettura più immediata della pellicola, alla quale però si possono affiancare altre piste d'indagine più profonde. E anche in questo caso, ci può essere d'aiuto Freud. Ma il Freud più maturo, quello di Al di là del principio di piacere (una tappa quasi obbligata, insieme all'interpretazione che ne ha dato Lacan) e de Il disagio della civiltà.  

Nel primo caso, entrano in scena assieme la pulsione erotica e quella di morte. Il corpo, i corpi, il desiderio sessuale hanno un ruolo non secondario nel film. Da antologia, la sequenza in cui Amelia si masturba con un sex toy, ma è interrotta dal figlio terrorizzato proprio un attimo prima del climax, lasciando il desiderio insoddisfatto, asintotico e pronto a ritornare. C'è anche un collega che la corteggia garbatamente, ma l'uomo vede frustrati tutti i suoi tentativi d'accesso alla donna. Sembra così di toccare con mano il concetto di desiderio, al quale si contrappone il godimento, la jouissance di cui ha parlato Lacan nella sua gigantesca rilettura di Freud (Salatino, cit.). Abbiamo, dunque, una triade molto interessante: il desiderio, rappresentato da Amelia; il godimento, rappresentato dal mostro; e il piacere, il cui significante è il piccolo Samuel, nella terra di mezzo tra questi due poli. Desiderio e godimento, a un certo punto, si fondono. Amelia, infatti, abita la jouissance, quando il mostro le entra dentro, con effetti devastanti, eccessivi, dolorosi.

La seconda pista è quella psicosociale. Essa ha anzitutto a che fare con l'incontro con un perturbante (das Unheimliche, nel lessico freudiano), che oggi è sempre più pervasivo. Al punto che - come scrive Nicole Janigro - "la vulnerabilità dell'uomo contemporaneo [...] diventa estrema nell'esposizione alla relazione, esperienza inscindibile dalla normale infelicità umana". In altre parole, la presenza dell'altro oggi è una sorta di trauma, ed il cinema che - come la psicoanalisi - vive d'immagini ne assorbe i tratti. È una lettura, questa, che mutuo da Siegfried Kracauer (Da Caligari a Hitler, 1947), il quale vide riflesso nel cinema espressionista tedesco degli anni Venti i rapporti sociali ed economici e l'inconscio collettivo della Germania di Weimar che di preparava all'esperienza Nazista. La coerenza con l'impianto estetico espressionista dal quale sembra emergere Babadook mi sembra, a questo punto, emblematica (cfr. le Figure 1 e 2).

Fig. 4 - La magia delle emozioni...

Ma s'intravede qui un livello ancora più astratto, anticipato nella storia della psicanalisi dal Disagio della Civiltà, in cui si discute del passaggio dall'io al noi: impresa tutt'altro che semplice da portare avanti dal punto di vista della teoria psicologica. Io qui rimanderei alla dialettica (già in Hegel) tra famiglia e Stato, in cui non sembra esistere la sintesi costituita dalla società civile. Vediamo così Amelia entrare in conflitto con la polizia, i servizi sociali, la scuola e le amiche: istituzioni e agenti di socializzazione al contempo. È una società senza empatia, meccanica e diffidente, mascherata ed egoista.

Non restano, allora, che le (forti) emozioni dei protagonisti. Per Sarte, infatti, l'emozione è "una risposta alle difficoltà del mondo", in cui entra in gioco anche la magia (non a caso praticata dal piccolo Samuel [cfr. la Fig. 4]). Ma l'emozione c'è quando ci crediamo veramente, tanto da indurre il sintomo, le "turbe corporali", come voleva Lacan (cfr. la Fig. 5).


Fig. 5 - Sintomi e turbe corporali

Babadook è girato e recitato molto bene, ha il pallore della protagonista, non esagera con gli effetti speciali e, attraverso un lavoro straordinario, sa creare disagio sin dai primi fotogrammi ed una certa paura più avanti. A conferma che si tratta della metafora di una seduta dall'analista, disagio e paura sembrano tuttavia scemare in anticipo. Paradossalmente, stiamo peggio all'inizio del film e non dopo, quando invece nel canone del cinema horror abbiamo, in genere, il massimo della tensione, prima della risoluzione definitiva. Come nella terapia psicoanalitica, i problemi qui, invece, non hanno una soluzione definitiva. Piuttosto, anche grazie a un pizzico di magia (o arte, come voleva lo stesso Freud), il paziente impara a convivere con i suoi mostri e col mostro che è egli stesso... ma anche tutti gli altri suoi simili. 4/5

QUI LA VIDEO-RECENSIONE

Nessun commento:

Posta un commento