sabato 25 febbraio 2017

La vita di Adele (La vie d'Adèle, A. Kechiche, 2013)

Con una macchina da presa gettata praticamente addosso alla protagonista, assistiamo all'educazione sentimentale della giovane Adèle (la bravissima Adèle Exarchopoulos), studentessa e poi maestra elementare parigina con molti dubbi e altrettante insicurezze. 

Il film procede per segmenti quasi autonomi, che però non vengono sottolineati da segni espliciti di punteggiatura, delegando allo spettatore la ricostruzione delle numerose ellissi narrative. Sembra di guardare un album di fotografie con lunghi vuoti temporali tra uno scatto e l'altro. Il punto di vista sembra essere interno. Una serie di ricordi messi in ordine cronologico, da cui emergono con prepotenza alcune esperienze, che risultano più vivide di altre.

La regia, che si ispira ad una graphic novel di Julie Maroh, sceglie dunque di non spiegare. Piuttosto, descrive, illustra, mostra. In questo senso, il piano espressivo e quello tecnico sono perfettamente in linea. 

Tra le descrizioni privilegiate, vi è soprattutto la vita sessuale della protagonista, cui fanno significativamente da contrappunto vari momenti in cui i protagonisti mangiano (anche in modo alquanto vorace). Adèle da eterosessuale "per imitazione" diventa omosessuale, come può accadere nella vita di molte persone (mi è parso di rivedere la classica tipizzazione del sociologo Kenneth Plummer). La rappresentazione è cruda, (im)mediata e senza musica, di un realismo quasi vicino al programma estetico del naturalismo francese (Émile Zola viene citato in un breve passaggio). Qualcuno l'ha definita pornografica. Naturalmente, non lo è, se non altro perché il sesso è funzionale alle scelte diegetiche di Kechiche. 

Tuttavia, mi è parso che il regista abbia preferito adottare alcune facili scorciatoie. L'assenza di una problematizzazione sia psicologica sia sociologica del personaggio di Adèle credo che alla fine nuoccia al film, o comunque rappresenti un'occasione perduta. La proposta del tema arte/vita, che sembra timidamente farsi strada a un certo punto del film, ad esempio, viene presto scartata come uno studio non riuscito. Il fatto che Adèle sia lesbica, inoltre, non dovrebbe legittimare una lettura (esclusivamente) sessuogenetica della sua biografia, pur essendo la sua passione divorante. Errore nel quale si ricade spesso, quando alla base della classificazione di una persona c'è il suo orientamento sessuale.  

Alcune indecisioni stilistiche sembrano emergere qui e là, anche se le prove d'attore sono maiuscole e indimenticabili, e il film sembra soffrirne oltremodo, anche considerando la lunghezza di quasi tre ore. Palma d'oro a Cannes nel 2013. Menu, però, a mio avviso, rivedibile. 4/5

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