sabato 4 marzo 2017

Café Society (W. Allen, 2016)

"Socrate dice che una vita non analizzata non ha valore. Ma quella analizzata non è un affare". 

Si chiude così, in crescendo, dopo un inizio un po' frenato, Café Society, l'ultimo film di Woody Allen. Un film sul dilemma tra rimorsi per gli sbagli compiuti e rimpianti per le cose mai fatte ma desiderate, che - come spesso accade nei lavori del regista newyorkese - è una lucida e a tratti cinica riflessione sulla condizione umana.

La storia racconta del giovane Bobby Dorfman (uno straordinario Jesse Eisenberg), che lascia la famiglia di origine ebree, nel Bronx, per raggiungere lo zio Phil Stern (interpretato da Steve Carell), un influente impresario cinematografico, nella Hollywood degli anni Trenta. Qui riuscirà ad entrare in contatto con l'alta società e, soprattutto, conoscerà Veronica (Vonnie) (Kristen Stewart), segretaria dello zio, con la quale intreccerà una relazione complicata, che è poi al centro del film.

Meno divertente che in altre occasioni, la pellicola è un'occasione per ragionare di sentimenti e di potere, di filosofia e di religione, di etica e di prassi. Ciò avviene soprattutto nella seconda parte, con il ruolo da coro greco affidato a Leonard (Stephen Kunken), il cognato di Bobby, il quale fa appunto da coscienza critica e guida etica tra i dilemmi sollevati e in qualche modo indagati nel film. Solo abbozzata, invece, è la café society hollywoodiana, che rimane sullo sfondo e sembra descritta come in certi articoli di gossip in voga anche oggi in certe rubriche di giornali e riviste popolari. La società d'alto bordo raccontata da Allen è, in realtà, solo un pretesto per un ennesimo sguardo in profondità sulle relazioni tra le persone.   

La mancanza di una risposta ai vari dilemmi posti dal film, la mancanza anche di una risposta escatologica (vedi la sequenza in cui Rose Dorfman (Jeannie Berlin) discute col marito sull'assenza di una dimensione ultraterrena nella religione ebarica), è essa stessa una soluzione. Allen sembra suggerici che non ci si può opporre alle leggi millenarie, alla sceneggiatura "scritta da un sadico che fa il commediografo", di un'umanità rimasta in balia del desiderio (un discorso che Bobby riprende nella seconda parte del film). Leggi che talvolta si possono spiare da una fessura imprevista, come quando ti accordi di amare due persone con lo stesso nome: Veronica. Fatto, quest'ultimo, che sembra concepito dal caso; caso, però, che non esiste. Si può sognare, ma "i sogni sono sogni". Cioè, in definitiva, un inganno; sebbene un inganno necessario. Ed ecco l'amara poetica esistenzialista più volte illustrata dal regista anche in altre occasioni.

Café society non è il miglior film di Woody Allen, ma l'impronta del maestro c'è. Tutti gli attori sono bravissimi, Jesse Eisenberg, Steve Carell e la scintillante Black Lively su tutti. Tecnicamente impeccabile, e con bellissimi movimenti di camera: la sequenza d'apertura ai bordi di una piscina è un'autentica boccata d'aria fresca. Fotografa Vittorio Storaro. E si vede. A fine proiezione, il languore c'è. E forse anche la catarsi. Ed è ciò che conta. 4/5

Clicca qui per la mia videorecensione del film 

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