martedì 17 gennaio 2017

Il volto di un'altra (P. Corsicato, 2013)

Il cinema italiano è vivo e lotta con noi. Il ritorno di Pappi Corsicato alla regia, dopo Il seme della discordia (2008), è fulgido e irresistibile. Il volto di un'altra, a mio avviso, è uno dei più bei film italiani degli ultimi anni.

Intanto, perché è assolutamente estraneo alla depressa "poetica" del cinema italiano d'inizio secolo. Felicemente effervescente, macabro e spiazzante, visivamente potente. In secondo luogo, perché riesce a divertire spettatori colti e medi, regalando a ciascuno motivi per uscire dal cinema satolli e beati. In terzo luogo, perché, pur apparendo disimpegnato in superficie, è un film che assesta un bel po' di colpi bassi alla società di oggi, rinfacciandogli certi tic e una cattiva propensione all'accettazione della volgarità (soprattutto televisiva). Sì, è un po' ingenuo sociologicamente, ma non banale: ciò che dice, lo dice con uno stile unico e personalissimo. E, dunque, bene così. Fra i temi, il triangolo dialettico anima-corpo-società, con più d'una allusione al Dorian Gray di Wilde. Il senso di posticcio è immanente, il film stesso è riflessivamente finto, è la chirurgia plastica di un film; ciò gli consente di denunciare la "falsità" semiologica di qualsiasi messinscena (anche quella delle cerimonie sociali).

E poi è un film che diverte come non mai. Un divertimento che può essere motivato ora dalla pulsante, fantasmagorica, scintillante messa in scena, contrappuntata da trovate estetiche spesso geniali, che giocano a sedurre continuamente gli occhi dello spettatore; ora da alcuni momenti elegantemente comici, in cui si ride di gusto; ora dal fatto di riuscire a riconoscere le tante citazioni cinematografiche disseminate nel film (da Occhi senza volto di Franju a Phantom of the Paradise di De Palma, dal Rocky Horror Picture Show a Metropolis di Fritz Lang, da Brazil di Gilliam a certi motivi felliniani, solo per citarne alcuni).

Si tratta di una pellicola in cui sembrano collassare lo spazio (ad esempio, Bolzano che si trasforma in Tucson, Arizona) e il tempo, che mescola agilmente una manciata di sottogeneri: il melò in auge tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta (quello dei film con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson), il cineromanzo, il fumetto pop, l'horror d'antan (primo fra tutti, considerato il tema del film, Frankenstein), la commedia all'italiana. 

Tutti in forma gli attori: dal cinico chirurgo dandy (Alessandro Preziosi, René), alla bellissima Laura Chiatti (Bella); dalla iconica Iaia Forte all'ironica (in quanto rifattissima) Rosalina neri. Sicurissima, matura e divertita la regia di Corsicato.   

Da antologia il balletto complice tra Preziosi e la Chiatti, che allude vagamente a quello tra Uma Thurman e John Tavolta in Pulp Fiction. E da antologia il finale, che ovviamente qui non svelo, ma che pare anticipare alcune odierne riflessioni sulla post-verità. Un finale che mi ha ricordato una sequenza di Tommy degli Who. Dotato di una certa densità filosofica e sociologica, nel momento in cui scopriamo che "la verità fa ridere". L'operazione sembra rileggere il senso del programma estetico surrealista bretoniano: qui la giustapposizione di figure e simboli («l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio») si sposta dal sogno al motto di spirito, dall'inconscio al riso... che, alla fine, ci seppellirà tutti. Supercalifragilistichespiralidoso! 5/5

Il trailer del film

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