mercoledì 3 settembre 2014

Un buco nel mio cuore (Ett hål i mitt hjärta, L. Moodysson, 2004)


Il film più noto, in Italia, dello svedese Lukas Moodysson è certamente Fucking Åmål - Il coraggio di amare, del 1998. Questo Un buco nel mio cuore (Ett hål i mitt hjärta) (2004), invece, è piuttosto sconosciuto, probabilmente perché troppo estremo e off the road. Insomma, non v'aspettate di vederlo in TV: ne rimarrebbero 10 minuti scarsi.

Il "buco nel cuore" del titolo si riferisce alla patologia cardiaca di uno dei protagonisti del film; ma allude, più in generale, ad un'assenza più grande, all'abnorme voragine di senso che caratterizza le società contemporanee.

All'inizio del film, il giovane Eric confessa all'attricetta di un video hard, che il padre si accinge a girare "in interni", assieme al suo compagno di merende, di credere che un tempo gli esseri umani avessero due teste, quattro braccia e quattro gambe. Si sono poi sdoppiati e, da allora, sono alla ricerca delle loro metà. Senonché, si tratta d'una ricerca disperata, mai risolta, impossibile. E, per questo, tragica. Di qui, un'assenza che si ripercuote sui corpi e, in ultima istanza, sulla società, che di quei corpi è composta.

La ricerca dell'altro/a finisce col perdersi nei dettagli (chirurgici, dermatologici, ginecologici) sempre più precisi di corpi, che vengono esplorati con grandi lenti d'ingrandimento, perdendo il senso complessivo del tutto (cfr. la Fig. 1). Il porno da girare, così, diventa metafora e pretesto per una riflessione più ampia, non solo sulla fine dell'eros, per far posto al sesso come performance (non è un caso che si trovino degli attrezzi da palestra nella stessa stanza in cui viene girato il video hard); ma, allo stesso tempo, sulla fine del "vero", in tutte le sue forme e declinazioni.


Fig. 1 - Corpi senza volto

La diagnosi della crisi, da parte di Moodysson, tuttavia, è strutturale, marxiana. In un frangente del film, si allude all'americanismo reaganiano come possibile origine del collasso delle società postmoderne. L'epoca dell'invasione definitiva del mercato nella carne viva degli individui. L'inizio della fine del welfare state. E, difatti, il regista opera una scelta stilistica geniale quando, oltre a censurare digitalmente gli orifizi della giovane e sbandata attricetta del film, censura anche qualsiasi marca possa apparire di fronte l'obiettivo della telecamera, sia che si trovi su un sacchetto della spesa, sia che appaia stampigliata su un elettrodomestico.

Fa parte della crisi l'impossibile dialogo tra padri e figli, uno dei perni centrali del film; forse anche l'impossibilità d'una relazione. I figli sono vittime dei padri. I padri sono vittime dei figli, come ci fa vedere icasticamente Moodysson (cfr. la Fig. 2).


Fig. 2 - Vittime

Nonostante siano vittime, tuttavia, i padri non vengono freudianamente uccisi. E i figli non crescono, finiscono inebetiti nelle prigioni dell'assenza di responsabilità, dell'assenza d'un qualsiasi principio di realtà (sostituito da bambole, giocattoli, simulacri più o meno riusciti del mondo reale); intossicati dall'odore di chiuso delle loro camere oscure, in cui si riflettono solo ombre imprecisate. Si sono smarriti riferimenti, senso, codici. Si vaga nel buio (cfr. la Fig. 3).


Fig. 3 - Into the dark

Il corpo diventa uno dei pochi luoghi di sperimentazione e battaglia. Per questo va addobbato, modificato, operato, ma forse anche tormentato e umiliato. Con il non trascurabile effetto collaterale che tutti questi interventi e queste suture lasciano le loro cicatrici. L'attricetta è un manifesto di questa sperimentazione, arrivando sino alla chirurgia estetica vaginale, che, però, invece di restituirle la "normalità", la rende artificiale come una bambola gonfiabile, sebbene delle più sofisticate. Anche il tentativo di togliersi di dosso un odore troppo "umano", le si ritorce contro, facendola paradossalmente puzzare per eccesso di pulizia. A un certo punto del film, sia il giovane Eric sia l'attrice provano ad entrare in una lavatrice. Per un metaforico lavaggio dello sporco dentro e fuori? (cfr. la Fig. 4)


Fig. 4 - Lavaggi

La cifra stilistica del film è quella del porno contemporaneo più estremo. Interamente girato in video, all'interno d'un asfittico, claustrofobico appartamento della periferia svedese, esso non fa alcuna concessione alla "poesia" (in stile Dogma von trieriano). Non ci risparmia neanche qualche pugno sullo stomaco. Nonostante il tema, comunque, non indugia mai nell'esposizione gratuita dei genitali, che anzi vengono quasi sempre (a meno che non siano maschili) oscurati. Un porno-non porno.

Non un film per tutti. Un film saggio, come se ne facevano nei militanti anni Settanta. Complesso, a dispetto delle apparenze. Pesante, anche. Sporco, ma non lavabile. Difficile da accettare, anche per lo spettatore più "vissuto". Senza angeli né demoni, senza buoni né cattivi. Ma un utile sussidiario per la comprensione d'un oggi nauseante, ma impossibile da non respirare (si veda la metaforica sequenza finale del film), abitato dai figli dell'assenza: del senso, dei padri, dello Stato. 

Il film s'apre e si chiude con questa domanda: «Chiudi gli occhi. Cosa vedi?» C'è speranza? Be', sarebbe molto istruttivo farsi un giro qui: http://chatroulette.com/. Frustrante. (3/4)

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