mercoledì 1 ottobre 2014

Blind (E. Vogt, 2014)

Il cinema è, fondamentalmente, esperienza (talora traumatica) della visione. Questo, sin dalle sue origini. Proporre, dunque, una riflessione sulla cecità, sfruttando il linguaggio cinematografico, è un'impresa che può sembrare impossibile, soprattutto perché l'occhio umano, al cinema, è spesso una metafora dell'"occhio" meccanico della macchina da presa (ricordo qui, solo di passaggio, il Woody Allen di Hollywood Ending; ma si potrebbe risalire fino al Kinoglaz di Dziga Vertov, passando per il potentissimo L'occhio che uccide di Michael Powell); negare l'occhio, dunque, comporterebbe negare il cinema. Ci è miracolosamente riuscito, in questo caso, il norvegese Eskil Vogt, con questo splendido Blind (2014). E solo un norvegese, forse, che conosce in modo drammatico il significato dell'opposizione tra buio e luce, tra notte e giorno, poteva concepire un film straordinario come questo.

La vicenda è quella di Ingrid (interpretata dalla bravissima Ellen Dorrit Petersen), una giovane insegnate, diventata cieca a causa d'una fulminante malattia degenerativa agli occhi, la quale trascorre le sue giornate fra le scomodità d'una casa riprogrammata per le sue nuove necessità, la dedizione d'un marito sin troppo paziente, una lenta rieducazione sensoriale, e tanta solitudine (cfr. la Fig. 1). Ingrid è all'inizio d'una crisi depressiva, che prova a raccontare ed esorcizzare scrivendo al computer, preparandosi a "conoscere" il mondo in un modo altro. 


Fig. 1 - Buio in sala

Il regista utilizza essenzialmente due espedienti, per poter entrare nella non-visione di Ingrid, seguirne il nuovo percorso gnoseologico, e sviluppare così il proprio discorso estetico.

Il primo espediente consiste in una riflessione sul "vedere", in quanto diverso dal "guardare". Affacciarsi a una finestra è, ad esempio, vedere senza guardare, senza cioè avvicinarsi al vero. Un tema, ovviamente, hitchcockiano (La finestra sul cortile) (cfr. la Fig. 2). L'aggiornamento sul tema, proposto da Vogt, è affidato alla visione panottica, voyeuristica offerta dallo schermo del computer, dal quale è possibile "vedere" ciò che non è dato vedere nella realtà. Ed ecco, ad esempio, nei primi fotogrammi del film, tutto un proliferare d'(in)guardabile pornografia di genere (letteralmente, nell'etimo, "oscena", cioè fuori dagli ordinari orizzonti della visione, anche dentro la pornografia stessa).


Fig. 2 - Finestre per vedere

Il secondo espediente per poter continuare a vedere, nonostante la cecità, è quello di mostrare, buñuelianamente, ciò che i sogni ci fanno vedere, ciò che paradossalmente "vediamo" quando si chiudono gli occhi o si spegne la luce (In With a Little Help from my Friends, i Beatles cantavano: What do you see when you turn out the light? I can't tell you but I know it's mine). Ed è questo secondo espediente che dà energia a tutto il film, e lo fa entrare in una dimensione non reale, ma allo stesso tempo verosimile. In altre parole, surreale - come i sogni. È per tale ragione che, all'inizio, ci si trova confusi, a disagio, come in una nebbia, senza molti punti di riferimento. Ci si abitua pian piano al nuovo stato di cose. Ma la luce spenta (la morte, in senso figurato) è l'inizio del desiderio e... del cinema. Ce lo ha insegnato Edgar Morin, in Le cinéma ou l'homme imaginaire (1956). Nel momento in cui il cadavere viene seppellito, nasce l'immaginazione, che lo fa sciamanicamente rivivere nei pensieri dei vivi. Nel momento in cui si spengono le luci in sala, inizia la magia, la fascinazione del cinema, che accende il desiderio (e la paura) degli individui. Nel momento, infine, in cui si spegne l'interruttore d'una lampada, si cominciano ad affollare le urgenze più inconfessabili (un passaggio, questo, esplicitamente richiamato nel film, quando una "diversa" Ingrid chiede al marito se ha spento la luce, mentre stanno per fare l'amore). 


Fig. 3 - Ingrid? Davvero questo è ciò che sembra?

Ed ecco che Vogt, con estrema perizia, riesce a farci entrare dalla porta principale, per assistere al sublime spettacolo del desiderio della protagonista; desiderio che si sublima in un surplus simbolico, che poi non è altro che lo stesso film che noi stiamo vedendo (non posso dire altro, per non rovinare la festa a chi vorrà vedere il film). Il tema è, ancora una volta, moriniano, e questa volta chiama in causa il tòpos letterario del doppio e dello specchio (cfr. la Fig. 3). 

Blind si presta anche ad altre letture, alcune delle quali non posso anticipare qui (ma alludo, essenzialmente, al ruolo degli strumenti diagnostici, di imaging, ad esempio, nella medicina moderna, i quali possono addirittura "ipervedere"). Un'altra, fondamentale lettura riguarda l'incontro con l'"altro", quando l'"altro" è - per così dire - diverso (cieco, disturbato, perverso, ecc., non importa). Anche in questo caso, il tema è la dialettica vedere/guardare. Si può essere diversi in vari modi, c'è chi "vede" e magari giudica; ma chi ha il coraggio di "guardare" davvero? E c'è anche il tema perfettamente complementare: in che misura siamo noi stessi dei ciechi, che si muovono a tentoni in un ambiente sconosciuto, e forse ostile? Con chi ci misuriamo davvero, ad esempio, in una seduta di chat su Internet? Chi "vediamo" dall'altra parte? Chi "vedono" realmente gli altri?

La sequenza finale è da antologia del cinema (cfr. la Fig. 4). Direi un piccolo saggio d'epistemologia (da notare, per inciso, la tradizionale, biblica associazione tra episteme e sessualità). Un'immagine quantistica. Quanto di ciò che mostro riesce ad essere "guardato"? Se io non vedo chi mi vede, quell'altro esiste? In che misura posso conoscere la realtà dell'altro, riuscire a "guardarlo"? Sono domande eterne, scomode, profonde, difficili. Vogt, naturalmente, non ha una risposta, neanche provvisoria; ma ha il merito di averle poste, discusse e messe in luce, all'interno d'una cornice molto suggestiva.


Fig. 4 - Una questione epistemologica

Il film è recitato benissimo, fotografato magistralmente, con tenui colori pastello, da Thimios Bakatakis, e diretto con sicura e raffinata delicatezza da Eskil Vogt. Vincitore, tra gli altri, di due prestigiosi e meritati premi al Sundance Film Festival e al Festival del Cinema di Berlino. Visionario. 5/5

2 commenti:

  1. bella recensione, grande film a me ha richiamato i film di Michel Gondry, ma il protagonista invece di subire la propria immaginazione o i propri sogni, la usa per creare le sequenze del film stesso e deciderne il finale!

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  2. Sì, grande film davvero! Non avevo pensato a questa chiave di lettura. Grazie! :-)

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