mercoledì 4 giugno 2014

Maps to the Stars (D. Cronenberg, 2014)

Le relazioni incestuose (nell'etimo, "non caste", "impure") generano mostri (almeno, nella vulgata comune). E Maps to the stars è un film di mostri, un horror contemporaneo, diretto da un suo padre nobile. Qui l'orrore deriva, in ultima analisi, dall'inautenticità e dalla finzione, dalla falsità e dal cinismo degli esseri umani. 

Cronenberg aggiunge un altro prezioso tassello alla sua riflessione sull'atto della rappresentazione, sul rapporto tra corpo, psiche e tecnologia, degno erede - in questo - della Scuola di Toronto (da M. McLuhan a D. de Kerckhove), indagando sul regno della finzione per eccellenza. Ecco il cinema, dunque, come metafora della inautenticità dei rapporti umani nel mondo contemporaneo, così dominato dal denaro e dalla tecnologia. Non una semplice incursione nel retroscena goffmaniano di ognuno di noi, si badi bene, bensì una cinica riflessione su un mondo diventato postumano, come già profetizzato dallo stesso Cronenberg in altri lavori. La monetizzazione (anche in senso lato) di qualsiasi aspetto della vita viene qui denunciato in modo drammaticamente crudo e senza "schermi", non risparmiando nemmeno i bambini, ridotti a replicanti impazziti con una vita limitata per effetto di mutazioni genetiche incestuose. Mentre la denuncia retroagisce, a sua volta, sul cinema stesso come industria. 

In questo fragile scenario di cartapesta, assistiamo alla morte delle stelle, cui aveva dedicato una riflessione l'Edgar Morin de Les Stars, già nel 1957. In quel libro, Morin parlava della degradazione della star a individuo comune, alle prese con la realtà e i suoi problemi, come risposta all'"effetto di verità" prodotto dalla televisione, allora in ascesa. Se non che, la rincorsa all'effetto di verità si è presto tradotto in oscenità (emblematica, in questo senso, la scena con la Moore, seduta sul cesso, alle prese col suo meteorismo), che nella lettura che ne ha fatto Jean Baudrillard è l'irruzione del retroscena sul proscenio, l'ostentazione di ciò che dovrebbe rimanere "fuori dalla scena" (una delle cifre, questa, della società contemporenea). Così, il divo non solo diventa uomo della strada, ma può essere toccato, (con)tattato, anche se per il tramite della tecnologia (Twitter, Facebook). Anche in questo caso, tuttavia, un "toccare" inautentico, strumentale.

Nel film, la speranza morale è un fantasma innocente, bambino, che esce dai corpi martoriati fisicamente e psicologicamente, per giustiziare il "vero", ormai diventato, letteralmente, in-guardabile: sui corpi (con le cicatrici prodotte dalle ustioni), sugli schermi (col fallimento della rappresentazione cinematografica: nessun film in lavorazione, infatti, si riesce, per vari motivi, a completare), nella società (che si difende ipocritamente, delegando una risposta agli psicofarmaci e a una sessualità come performance che ha abbandonato il desiderio, diventando porno, come affermava Carmelo Bene).

Nella cornice d'una sceneggiatura da premio, ottime le recitazioni di Julianne Moore e Mia Wasikowska. Bravo anche un Robert Cusack, qui - per fortuna - irriconoscibile. 

Sono sicuro che, fra qualche tempo, questo film si guadagnerà lo status di capolavoro, ma bisognerà assorbire piano la botta. Imprescindibile. (5/5)

Trailer

2 commenti:

  1. Recensione favolosa, ricca di contenuti di riflessione alquanto profondi che fanno trasudare verità e conoscenza da tutti i pori. Andrò a vedere senz'altro questo film.

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  2. Grazie, Vito! Poi, magari, mi fai leggere la tua recensione.

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