giovedì 4 gennaio 2018

Coming apart (M.M. Ginsberg, 1969)


Joe, uno psichiatra tormentato ("spaventato", egli si definisce all'inizio del film), ossessionato da una precedente relazione, e dalla dubbia moralità, filma di nascosto i suoi rapporti con varie donne, in un appartamento di una non meglio precisata città americana.

Coming apart (1969) è un film quasi sperimentale di Milton Moses Ginsberg, che ha una trama piuttosto evenemenziale, costituita da tutta una serie di incontri senza un apparente filo conduttore, improntata allo stile del cinéma vérité, in voga negli anni Sessanta. Potrebbe assomigliare allo schedario d'un poliziotto, affollato da figure molto variegate. In comune con le collezioni di schede-referto, vi è la tensione epistemologica dell'inchiesta, il complicato ma ineludibile rapporto con la realtà. 

Ciò che rende il film degno di nota (e di una visione) è la messa in scena, il ruolo della macchina da presa (e dunque il punto di vista proposto allo spettatore), e gli aspetti tecnici in generale: il montaggio sincopato, sporco, coi ritagli di pellicola messi in evidenza; la fotografia in bianco e nero, granulare, lo-fi; il sonoro: interrotto, disturbato da frequenti click, feedback, rumori di fondo. Anche i discorsi e i ragionamenti sono afasici, tautologici, talora ridotti a espressioni onomatopeiche o primitive.   

L'idea che ispira tutto il film è quella di far coincidere il materiale amatoriale girato da Joe con il film stesso, conferendogli una efficace illusione di autenticità, di (im)mediatezza, d'improvvisazione. Molto interessante è il punto di vista scelto dal regista, il quale riprende gran parte dell'azione con una camera fissa, rivolta in direzione d'un grande specchio appeso dietro un divano. 

Ciò significa che i personaggi vengono sistematicamente duplicati, sdoppiati. Se ne vede il corpo, ma anche il riflesso, suggerendo metaforicamente il collasso della distanza tra scena e retroscena, tra maschera e volto, tra pubblico e privato. 

Come scriveva J.L. Borges, "gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini". E qui non manca nessuno di questi elementi. Tutto però passa da una tecnologia che vorrebbe ambire all'autenticità documentaristica, ma è condannata al fallimento. È infedele. Come il promiscuo protagonista. 

Registratori, microfoni, cavi, macchine fotografiche, pellicole dominano la scena. Il bel finale neoluddista rompe l'incantesimo e la tensione, e lo spettatore può ritornare alle finzioni della vita quotidiana, dopo uno sforzo non indifferente. La sensazione è di aver fatto un bagno nel rumore. Un rumore che si nota solo quando è finito. Ma è un paradosso: la verità esposta, infatti, non può che essere "rumorosa"; tolto il rumore, tuttavia, il noumeno (e il senso) non c'è. E anche il corpo nudo, nudo non lo è mai. 

Coming apart è un film interessante, abbastanza hippie, ma anche premonitore, recitato molto bene (soprattutto da Rip Torn), in quanto apparentemente non-recitato; adatto a chi vuole uscire dalla comodità di certe visioni stereotipate. Se lo spirito è questo, il film non delude e può regalare più d'una (buona) vibrazione. 3/5

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