domenica 25 luglio 2010

La chiamavano Bilbao (B. Luna, 1978)

Questo film dello spagnolo Bigas Luna ci è parso assai ben fatto, e certamente dotato di un notevolissimo spessore filmico, linguistico... emozionale perfino. Si tratta di una pellicola ossessivamente sospesa tra il vero e il finto, tra l’idea e l’atto, tra l’attesa e la sua delusione.
Il protagonista della storia è interpretato da un Angel Jové semplicemente perfetto nella parte del patetico, bamboccesco maniaco. Questa sorta di perenne allievo della Scuola Radio Elettra, rinchiuso nel guscio protettivo costituito dalle cose che “gli piacciono”, così gommose, sottomesse, ricreative come all’asilo, ci racconta, nel suo ossessivo solipsismo, la sua grande occasione per rendere quelle cose che gli piacciono finalmente "vive". Il leitmotiv di Bilbao, proveniente da un disco sempre più graffiato, il fruscìo delle di lei calze, le immagini sfarfallanti del super-8, l’inseparabile registratore, infatti, non gli possono restituire il feedback necessario a legittimare finalmente il suo finto dominio sulla vita. E già Wiesengrund Adorno s’avventava contro questa "fintezza" della modernità. La stanza del maniaco è una sorta di museo del modernariato, ma su tutto grava un’aria di finto e di morte che finirà coll’infettare anche una languida, cloroformizzata, pivettiana Bilbao.
Anche il sesso, in questo quadro congelato e congelante, non poteva ch’essere finzione. Anzi di più, negli 85 minuti montati da Luna, non si assiste mai ad un rapporto sessuale completo, portato a termine. C’è il sesso finto delle prostitute, la fellatio di Bilbao al protagonista, la depilazione intima inflitta alla stessa, che assomiglia ad un’operazione d'impagliamento, d'imbalsamazione.
A far da contorno, alcune leccornie che ritroveremo nell’opera successiva di Luna: la carne di maiale di Jamon, Jamon (1992), i glabbri pertugi femminili di Le età di Lulù (1990), e il latte di La teta y la luna (1994).

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