sabato 18 dicembre 2010

Il Soccombente

La lettura de Il Soccombente (Der Untergeher), 1983, di Thomas Bernhard, ci ha suscitati non pochi spunti di riflessione e critica, che in questa sede vorremmo provare a riprendere.
Innanzitutto, è un romanzo che, per la costruzione narrativa, si potrebbe intitolare: "La scatola", una scatola le cui superfici sono incollate dall'uso metodico, incessante, a volte tracimante, dell'anafora come artificio retorico. Una scatola musicale, un music box viennese. Lo stile anaforico richiama quello della fuga, dell'imitazione, del basso continuo, proprio di J. S. Bach.
Invero, l'impressione, il sapore, che rimane alla fine del libro ci pare alquanto acquoso. Non è l'argomento - il Glenn Gould delle Variazioni Goldberg e dell'Arte della fuga, e le vicende di due suoi colleghi - a determinare tale sapore, quanto piuttosto il modo di raccontarlo. Così, alla scatola musicale si sostituisce abbastanza presto l'immagine di una ricca sala da concerto mitteleuropea, vuota, senza pianoforte, con una mosca fastidiosa (le considerazioni sul socialismo, ad esempio) a destare di tanto in tanto l'interesse del lettore. E d'altra parte non è un caso che entrambi i colleghi-amici di Gould, tra cui Wertheimer: "il soccombente", protagonisti del romanzo, abbiano deciso di vendere i propri strumenti e di abbandonare gli studi musicali; certo, dopo avere ascoltato le indimenticabili esecuzioni del genio pianistico canadese.
Il flusso di pensiero di Bernhard, che per buona parte del libro si sviluppa nei minuti di attesa del narratore alla locanda di Wankham, ci conduce all'interno della scatola e ce ne fa uscire senza che per noi sia cambiato nulla. Siamo come paralizzati. E sospettiamo che Il Soccombente sia giusto un romanzo di stampo nichilista sulla, sulle, paralisi. Tutti i personaggi, maggiori e minori, sono trattenuti, fermati da qualcosa che può essere la figura di Glenn Gould per Wertheimer, la morte di quest'ultimo nel caso di Franz - il fattore -, e ancora lo stesso Wertheimer per la sorella, che riesce a fuggire a Coira grazie al matrimonio, e per tutti i personaggi minori come i lavoratori della cartiera a Wankham. Per Glenn Gould, invece, non esiste una paralisi che nasce da dentro; egli viene, per così dire, paralizzato da un accidente, l'ictus, dalla morte, dal rigor mortis ch'è metafora di una paralisi più grande, verso cui tutti siamo destinati, e che si abbatte su Glenn Gould proprio perchè questi è "il" piu grande.
Dicevo di un romanzo sulla paralisi, ma nichilista. Già, nichilista perchè, a differenza di Joyce, ad esempio, la paralisi prende il genere umano tutto, non è un ubi consitam critico per il riscatto umano, sociale, mitico, come avveniva nello scrittore di Dublino. Il nichilismo si affaccia e ritorna, poi, protagonista, nell'ultima parte del libro. Il narratore viene preso dai discorsi della locandiera, di Franz; anch'egli è paralizzato, ma questa volta noi siamo partecipi del suo travaglio interiore, e così usciamo dal romanzo con quella sensazione di acquosità cui accennavo all'inizio.
C'è silenzio nell'aria. E c'è un albero frondoso che perde mano a mano,
a causa dell'incipiente autunno, tutte le sue foglie: gialle, appassite, morte... E non c'è Glenn Gould.

Nessun commento:

Posta un commento