Sullo schermo nero si scorge una fessura. Una fessura creata
da muri che si aprono seguendo il movimento della m.d.p. Il cielo ha “rotto le
acque”: piove. E lì, per terra, heideggerianamente “gettata” (Geworfenheit) nel mondo, piena di colpi
ed ecchimosi, come un bambino appena partorito, c’è Joe (Charlotte Gainsbourg). È appena (ri)nata. Inizia il lungo racconto della
sua vita. Parlato.
S'apre, dunque, con una (ri)nascita personale Nymphomaniac (2013) di Lars von Trier, che qui viene recensito
nella sua versione estesa. Ma è anche qualcosa di più. Il regista danese, infatti, ci
propone una vera e propria cosmogonia (dopo l'Apocalisse di Melancholia), la nascita d’un mondo. Si tratta di una "origine del mondo" à la Gustave Courbet. E di una Weltanschauung con la sua lingua,
che come nel Codex Seraphinianus
risulta dall’originale giustapposizione di forme archetipiche, modelli
semplici, segni atavici e misterici. Il tema dell'origine è anche sostenuto dai frequenti riferimenti al frassino, che nella mitologia norrena è Yggdrasill, l'albero del principio, che con le sue radici sostiene il mondo. Nymphomaniac
è un’opera mondo, così come l’ha definita Franco Moretti (Opere mondo, Torino, Einaudi, 2003). È come il Faust di Mann, spesso citato nel film, l’Ulisse di Joyce, o Cent’anni di solitudine di Gabo Márquez. Le opere mondo sono: “enciclopediche,
polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili”. Tutti aggettivi che descrivono perfettamente il film.
L'esercizio enciclopedico di von Trier ritaglia dalla
storia della cultura occidentale una lunga serie di riferimenti, riunendoli in
un pantheon personale che va da E.A. Poe a J.S. Bach, da Jimi Hendrix a Charles
Darwin, da Fidia alla fisica dei quanti. Il regista disegna il suo mondo con
movimenti di macchina che sembrano ispirarsi alla sezione aurea. Organizza il
suo discorso in didascalie, formule, capitoli ("Il pescatore perfetto", "Jerôme", "La signora H", "Delirio", "La scuola di organo", "La chiesa d'Oriente e d'Occidente (L'anatra silenziosa)", "Lo specchio", "La pistola"). Tenta di ricostruire una
grammatica sociale, con lo stile d’un catalogo di botanica della fine dell’Ottocento.
Ma c’è sempre qualcosa che sfugge, che risulta incontrollabile, o è
infinitamente grande, incommensurabile come una successione di Fibonacci (in
origine, pensata per tener conto della frenetica attività copulatoria dei
conigli). Non c’è una logica, dice Joe al vecchio Seligman (il bravissimo Stellan Skarsgård), che l’ha raccolta
dalla strada. Sicché lo scarto non è mai colmato, come nel paradosso di Zenone,
quello di Achille e della tartaruga, citato (e
spiegato) nel film. L’intera cultura dell’Occidente sembra aver trovato dimora, come in un Aleph borgesiano, tra i fotogrammi della pellicola, curati da von Trier in ogni minimo dettaglio.
Anche il cinema, ovviamente, vi rientra. Le meta-citazioni sono vaste, da Tarkovskij
a Pasolini, fino allo stesso von Trier (ad esempio, la sequenza del bimbo sul
balcone). In una brevissima sequenza, il regista ci invita pure a riflettere
sulla macchina cinema, sul suo essere specchio, quando, durante il racconto di
Joe, da uno specchio, appunto, si riescono ad intravedere attrezzi, strumenti
ottici, mani dell’operatore che in quel momento stanno girando il film.
È certamente un film erotico, Nymphomaniac, ed anche pornografico; ma bisogna intendersi sui
termini e le loro connotazioni.
L’erotismo di von Trier, intanto, gioca su due sponde
fondamentali. La prima fa certamente riferimento alla grande intuizione di Bataille,
circa l’intimo nesso fra eros e religiosità (Georges Bataille, L’erotismo, Milano, ES, 1957). La
ninfomane Joe viene “salvata” da Seligman, che diventa una sorta di confessore
laico, e attraverso il suo racconto discute di peccato, colpa, espiazione. Joe
però non cerca la salvezza, cerca un superamento mistico, un oltrepassare. All’inizio
del film dice di essere tra coloro che “pretendono di più dal tramonto”.
L’incontro con Seligman attiva una dialettica hegeliana di tesi (natura), antitesi (cultura) e
sintesi (civilizzazione), che permette a Joe di cambiare prospettiva ogni volta, per produrre nuovo discorso. Il suo mondo viene messo sottosopra dal vecchio confessore,
come fece Marx con la dialettica di Hegel, per rivelarsi in altre forme. Si
tratta della visualizzazione plastica dell’incessante attività di Es, Io e
Super-io nella psiche umana, così come ce l’ha insegnata Sigmund Freud.
L’immagine di un frassino diviso e piegato dall’esperienza, nella seconda parte
del film, restituisce la sintesi, l’esito di questa attività, che Joe fissa con
sublime commozione, in un ritratto che von Trier prende a prestito dall’iconografia
romantica.
La seconda direttrice dell’erotismo di von Trier è quella
gnoseologica. L’eros è scarto di conoscenza. La ninfa (il primo stadio di
sviluppo di un insetto, prima di diventare pupa) è colei che si trova solo al
primo stadio di tale conoscenza, e deve fronteggiare prove ed errori talora
costosi. Senonché, la ninfa Joe sovverte l’esito NELLA civilizzazione che segue
generalmente alla fase sperimentale, riscoprendo invece il “principio del
piacere” e facendolo reichianamente o marcusianamente prevalere sul “principio
di prestazione” (W. Reich, La funzione
dell’orgasmo, Milano, il Saggiatore, 1969; H. Marcuse, Eros e Civiltà, Torino, Einaudi, 1964). Le leggi del desiderio, tuttavia, sono lì a ricordarle che non può esistere appagamento del piacere, e anzi può
arrivare la distruzione. Il fatto è che il desiderio non ha a che vedere con la
soddisfazione di bisogni primari. Ci vuole altro, ci vogliono radici,
riconoscimento, parola (M. Recalcati, Ritratti
del desiderio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012). Ed è, infatti, straordinaria
la riflessione orwelliana che l’incolta (ma intelligentissima) Joe fa a
Seligman sull’importanza delle parole, che non vanno eliminate, proibite; anche
quelle con più forte contenuto assiologico, come “negro”.
Quanto al porno, se lo si immagina come rappresentazione
immorale, siamo del tutto fuori strada. Semplicemente sbaglia chi qualifica
sbrigativamente la pellicola come pornografica (o ci/si sta prendendo in giro,
come ha fatto furbamente von Trier, con i gazzettieri pettegoli e incolti). Non
lo è affatto. Anzi, è un viaggio nei profondi dilemmi della filosofia morale, da
Aristotele a Jonas. E si pone, inevitabilmente, in una dimensione
essenzialmente escatologica, laddove vengono esplorate le varie forme del limite
degli esseri umani. Nymphomaniac è,
semmai, osceno; ma nel senso etimologico del termine, nel senso che porta sulla
scena ciò che non dovrebbe starci. Il dialogo sull’aborto, ad esempio, è
qualcosa di unico: scioccante e commovente, intelligente e durissimo,
stimolante e provocatorio (Ingmar Bergman ascolta da dietro una porta). È un
film per adulti, illuminista in senso Kantiano. È porno, perché ritrae organi ed atti
sessuali, ma è anti-porno, nel momento in cui inverte la direzione di causa ed
effetto: mentre nel porno la trama è un pretesto, qui il pretesto è il sesso. Un
sesso ch’è polimorfo, polifonico, molteplice. Una delle visioni più belle che
ci regala il film è un’odigitria, che fa da contraltare alla crudeltà dell’iconografia
cristiana della croce. Il tentativo è quello di riscattare la dimensione
gioiosa della sessualità dalla petit morte,
o dallo scandalo del desiderio. Ma l’orgasmo è dolore e piacere, è la Chiesa
dell’Est e dell’Ovest, è una somma di voci e di trame, come in una sonata di
Bach. Ha degli accessi bizzarri, come quelli che può trovare un’anatra muta e curiosa in cerca di guai (il
riferimento è alla forma che assume la mano nelle pratiche di fisting).
Nymphomanic è un’opera aperta, asintotica, e in quanto tale
continuerà a dirci cose, a porci delle domande, a suggerirci delle letture. Virtualmente
all’infinito. È, al contempo, un manuale, un saggio, un documento, un romanzo dai precisi meccanismi
narrativi. La recitazione è ai massimi livelli, e la Gainsbourg semplicemente impossibile
(e che emozione rivedere Udo Kier!). È già un classico, perché – come voleva
Calvino – non finirà mai di dire ciò che ha da dire. Ed è un immenso capolavoro
senza tempo. (Big) bang!