Seul contre tous è un lungo monologo interiore, sostenuto dall'uso anaforico d'un sinistro sparo di pistola, scritto e diretto da Gaspar Noé, cui sono occorsi circa cinque anni per finire il film. Tra un capitolo e l'altro, dei minacciosi cartelli in tedesco, che sembrano alludere ai Sezierraum di Mauthausen e Auschwitz, fungono da didascalie. Davvero ansiogeno il penultimo Achtung!
L'uso dell'espressione "monologo interiore" è spesso abusata, ma è qui tremendamente appropriata. Noé non ci risparmia nulla: le eccedenti tortuosità del pensiero, il disordine della sintassi, le dissonanze cognitive, una sincerità criminale, l'indicibile più meschino e (in)umano, l'abisso esistenziale, il lessico dei bisogni primari, la fanghiglia dei pregiudizi, l'indecidibilità dei sentimenti.
La corporeità del macellaio (un immenso Philippe Nahon), di cui in premessa viene proposto una sorta di biopic, è solo un pretesto diegetico, come la pseudomarcetta funebre della colonna sonora. Il film sta tutto in un inconscio lacaniano che prende la forma d'un testo concreto - il monologo del protagonista - e ha l'unico vizio di non essere a tratti plausibile per un ex-macellaio che entra ed esce dal Lumpenproletariat francese. Parte di quell'inconscio, tuttavia, trova il modo di spurgarsi all'esterno. Il più delle volte è uno spurgo fetido e intollerabile. Ma il macellaio è agito da un mondo ch'è mera apparenza e convenzione. Il mondo è un abattoir per tutti. Non solo, egli è anche il significante di millenni di storia dell'umanità tutt'altro che edificanti. Un'umanità che - suggerisce il film - non dovrebbe più essere messa in condizione di generare figli.
Seul contre tous è, a suo modo, un'operetta morale, la cui morale è, in realtà, un'anti-morale: si vedano le sequenze iniziale e finale del film. Tratta di un'umanità degenerata, forse da sempre, con la forza dell'ellissi visiva, e di una fotografia imputridita. Un'umanità e una nazione che sono diventate carne da macello (la cartina geografica della Francia è raffigurata come un lembo di carne). È un film che mette in discussione qualsiasi comodità emotiva, ma sa "regalare" il suo effetto catartico sui generis, dopo la visione. Si scopre, infatti, che lo spettatore è stato sottoposto a una lacerante rieducazione. Ad uno scacco al re finale. E rimane il dubbio terrificante che forse nulla ci è estraneo dell'estraneità troppo umana del protagonista. Non è facile, insomma, terminare la visione, sollevati per il fatto che è solo un film.
Non ci sono, peraltro, molte spiegazioni. In superficie, si può forse intravedere una posizione di matrice materialista. O degli spunti neodarwiniani. Ma c'è molto, molto di più. C'è una pessimistica ed eterna archeologia delle relazioni umane. Un ontologico, heideggeriano, irredimibile disagio d'esistere.
Non ci sono, peraltro, molte spiegazioni. In superficie, si può forse intravedere una posizione di matrice materialista. O degli spunti neodarwiniani. Ma c'è molto, molto di più. C'è una pessimistica ed eterna archeologia delle relazioni umane. Un ontologico, heideggeriano, irredimibile disagio d'esistere.
Cinema all'ennesima potenza. Molto stratificato, e con una polifonia di registri stilistici e narrativi, che cita Godard, Scorsese, e certa filmografia mitteleuropea (Haneke, Seidl, Kargl). Estremo. Doloroso. Subliminale. Noé si reinventa la categoria del "perturbante" (Das Unheimliche) sul grande schermo, andando oltre l'horror. Incetta di premi in vari festival. Ma astenersi romantici. Captif. 4,5/5