venerdì 3 febbraio 2023

Scappa (Get out, J. Peele, 2017)

C'è tutto il rimosso della questione razziale americana in questo Get Out (2017) di Jordan Peele. Un'opera prima che è un gigantesco lavoro sociologico sulla condizione nera nel nuovo millennio. Il tema della rimozione è trattato in modo magistrale e con una straordinaria capacità evocativa, sfruttando largamente, ancorché con grande efficacia, il piano allegorico. Peele denuncia a voce alta un tabù mai risolto e semplicemente nascosto sotto la superfice lucida e scintillante dell'America neoliberale. Non è un caso, che il buon Chris, protagonista-vittima del racconto, venga spinto verso il "mondo sommerso", affondato, separato (segregato), ridotto a dimenticanza. È ciò che ha fatto l'America coi neri, nonostante Obama e una insopportabile postura politically correct, che nel film emerge con tutta la sua maleodorante ipocrisia. II tema della rimozione viene esplorato con un interessante gioco di specchi anche attraverso la figura della "suocera"-analista, che - anche qui con uno stratagemma di forte impatto metaforico - allude al lavoro di manipolazione subliminale dei bianchi sui neri. Notevolissimo il lavoro di scrittura sul rovesciamento del senso di colpa. Non è estranea, poi, nella costruzione dei giochi di forza, all'interno del film, una dialettica servo-padrone, rappresentata in modo molto originale: i bianchi, in fondo, sono deboli e dei neri hanno bisogno; ma è necessario appropriarsene e "ricondizionarli" (ogni riferimento alla spoliazione della cultura nera, che è confluita - ad esempio - nella popular culture d'oltreoceano, è puramente voluto). L'impegno di regia è superbo nel riuscire a restituire un'incessante atmosfera d'inquietudine (interrotta, solo ogni tanto, da brevi situazioni umoristiche), sin dal geniale prologo che squarcia la narrazione e, col senno di poi, suggerisce tutta una serie di scenari aperti. Le scelte di prospettiva sono eseguite talmente bene che a un certo punto siamo noi Chris. E siamo neri. E fa male.

sabato 5 dicembre 2020

Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things, C. Kaufman, 2020)

Sto pensando. Sto pensando di... È un cogito cartesiano, quello in cui c'imbattiamo in questo film di Charlie Kaufman, sin dal titolo. Perifrastica attiva dell'atto in procinto di compiersi, della potenza che non è ancora atto; delle possibilità che non sono ancora diventate fatti e che potrebbero ancora attualizzarsi in mille modi. Ma anche "dimenticanza dell'intenzione" (sono ancora attualissimi gli esperimenti di Carmelo Bene nei suoi Amleto). Cogito, ergo sum. Penso, dunque sono. Sì, ma chi? Chi sono? E qui la faccenda si complica, perché questo è un film profondamente filosofico, che con le questioni epistemologiche e persino ontologiche gioca e si confronta, quasi furiosamente, in una complicata rete di riferimenti, come in un labirinto di specchi, che in certi momenti possono dare le vertigini.

Attraverso l’uso anaforico dell’espressione “sto pensando di”, vengono poste sul tavolo, nel corso d'un viaggio che non è solo fisico ma anche simbolico, tutta una serie di questioni che affollano la mente della protagonista (e non solo di lei), in un flusso di coscienza che ha la stessa nobiltà di quelli costruiti da Joyce. La matrice letteraria del film è, comunque, l'omonimo romanzo di Iain Reid del 2016. L’elemento in comune che contraddistingue tali questioni è l’esplorazione dell’esperienza del mondo, che è allo stesso tempo Erfahrung ed Erlebnis, come ci hanno insegnato i filosofi tedeschi. E allora nel film vediamo magistralmente, quasi miracolosamente, sovrapporsi numerosi piani: presente, passato e futuro, realtà e soggettività, spazi fisici e spazi mentali, fatti reali e fatti possibili o pensati, progetto e improvvisazione, caso e destino. Sto pensando di finirla qui è, per certi versi, un film “quantistico”. Certo, viene citata la "formula dell'amore" di Paul Dirac, ma soprattutto pare di vedere all'opera in modo plastico il principio d'indeterminazione di W.K. Heisenberg; il fatto, poi, che i due protagonisti principali del racconto siano due scienziati è più d'un indizio.

La messa in discussione della realtà che è centrale nel film sembra una filiazione del gigantesco dibattito che ha coinvolto, nel Novecento e oltre, almeno quattro discipline e i rispettivi livelli della realtà: fisica, neuroscienze, arte e filosofia. Il film ha quasi la forma d'un trattato scientifico: sembra d'intravederne abstract, citazioni, dati e nota metodologica. Perfino l'impact factor finale con attese da premio Nobel. Un film-saggio che denuncia, sulla falsariga dei lavori oggi fondamentali del neuroscienziato Antonio Damasio, l’"errore di Cartesio", la separazione tra corpo e mente. Questione esplorata anche nell'incredibile carteggio tra lo psicologo Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli e raccontata in termini divulgativi da Charles P. Snow nel suo pamphlet sulle due culture. Una dicotomia, tuttavia, che ne richiama altre e, tra queste, quella tra scienza e arte (sul tema, mi permetto di rimandare al documentatissimo saggio si Stefano Poggi, L'anima e il cristallo, il Mulino, 2014).

Lo splendido, spiazzante, imprevedibile finale ci mostra l'approdo contemporaneo di quel dibattito novecentesco, all'insegna della conciliazione proprio tra arte e scienza, che in fondo è, paradossalmente, tutta romantica (non era forse proprio Goethe uno scrittore-scienziato?), dopo la grande fatica d'aver dovuto mettere tra parentesi ogni certezza. Come scriveva John Lennon, “life is what happens to you while you’re busy making other plans”. Una fatica che ci ha disorientati, messi a disagio e fatto letteralmente paura, come in un horror. Perché questo è anche un film gotico contemporaneo (e qui potrei rimandare al saggio di Federico Boni sulla serie TV American Horror Story). Tra le righe, ad esempio, m'è parso d'intravedere un omaggio allo Shining kubrikiano, oltre a tanti altri (memorabile la discussione su Una Moglie di John Cassavetes, per certi versi un altro film sull'orrore borghese americano e le sue conseguenze psicologiche). 

Quello di Kaufman potrebbe essere uno dei film, ma anche dei saggi, del secolo. Da proiettare nelle scuole di ogni ordine e grado, come si diceva una volta. Ci si potrebbe organizzare un corso monografico universitario post-disciplinare. Perché questo è cinema di grado superiore al secondo. Intanto, si può ammirare su Netflix.

venerdì 20 novembre 2020

Liberté (A. Serra, 2019)

Impressionante, non tanto per quello che si vede, quanto per quello che NON si vede. Resoconto notturno, nel rispetto delle classiche unità aristoteliche, d'una impossibilità e d'un fallimento: quello del piacere, ma soprattutto della ragione; entrambi centrali nell'età dei lumi. Aufklärung negativa, che ci parla della ricerca del profondo "alla luce del buio". Disperato e disperante, può ricordare il Salò pasoliniano, anche se qui si battono altre strade, nonostante le medesime allusioni a Sade e la presenza d'un sottotesto politico sia nell'uno sia nell'altro. Film estremo, da ogni punto di vista. Tecnicamente, un lavoro gigantesco di riflessione sui modi della rappresentazione. Sarà certamente incluso nelle letterature di genere. Senza voto, indecidibile.

domenica 15 novembre 2020

Midsommar - Il villaggio dei dannati (Midsommar, A. Aster, 2019)

Quasi un ideale successore de La montagna sacra (1973) di Alejandro Jodorowsky, Midsommer - Il villaggio dei dannati (2019), di Ari Aster, è un film sulla presenza dolorosa e opprimente delle convenzioni e del simbolico nella vita degli individui, che mette in drammatica e irriducibile antitesi l'individuale e il collettivo. Esso sembra ricalcare certa letteratura che, nelle scienze sociali, ha svelato in modo eclatante la centralità degli aspetti normativi dell'agire: S. Asch, S. Milgram, P. Zimbardo. In un certo senso, potrebbe rappresentare il resoconto d'un esperimento sull'obbedienza andato a male.

Il film è costruito come un discorso formulato dall'inconscio, un sogno-incubo, un lavorio allucinato (di qui la continua allusione alle droghe) che prova a fare i conti con un reale insopportabile, compreso l'evento del lutto. Ma, laddove - in Jodorowsky - il simbolico e la sua sovversione venivano lasciati liberi di sprigionare tutto il loro potenziale anarchico, qui invece, con l'opera di Ari Aster, abbiamo una struttura del tutto coerente, una teoria, una tesi da dimostrare, come quella che due dei giovani protagonisti devono scrivere sulle tradizioni del villaggio svedese che li ospita.

La teoria è che non si può prescindere dai rituali imposti dalla società. Anzi, gli si deve obbedire. Tanto più, quando questa società è chiusa, quando si fa "comunità" di sangue (Gemeinschaft, per usare la categoria sociologica di Tönnies). Si vedono, così, tutti gli estranei al villaggio, gli ospiti americani, coinvolti e anzi "spinti" a partecipare, loro malgrado, alle varie attività tradizionali e quotidiane promosse dagli indigeni. La chiusura, tuttavia, può allontanare la legge (che è anche legge religiosa) dalla morale, quando la prima viene "recitata" in modo automatico, autoreferenziale. E qui la teoria del film diventa teoria "politica" e ci ricorda tanto horror sull'America profonda degli ultimi anni.

C'è, comunque, un bisogno forte a cui dà risposta la comunità: la condivisione del male, per curarne le ferite, per lenirne il dolore. Cosa che, forse, può spiegare l'atrocità del resto... Questa precisa funzione sociale della comunità viene rappresentata nel film, in più occasioni, in modo potentissimo; rappresentazioni che, da sole, valgono il prezzo del biglietto. Ma un micro caso-studio viene già anticipato nel prologo del film, quando osserviamo la relazione di coppia tra Dani e Christian; una relazione d'aiuto, e probabilmente solo quello. La coppia-diade, del resto, è la prima e più elementare forma di gruppo sociale. Dani e Christian, man mano che la storia prosegue, si allontanano, ripercorrendo a ritroso l'evoluzione dalla famiglia moderna nucleare a quella estesa e patriarcale, dimostrando - come voleva Durkheim - l'inadeguatezza della prima in un contesto comunitario e premoderno.

Il supporto comunitario ha perciò un costo: la perdita dell’io e del suo corpo fisico. Nella comunità non si agisce, si è lacanianamente “agiti”, non si parla si è “parlati”. Di qui la dannazione: c’è un orrore della realtà (e della libertà) e un orrore della sua sublimazione nella società-comunità. Non sembra esserci soluzione. La teoria si rivela un'aporia. Non resta che scegliere come uccidersi, come - letteralmente - "farsi fuori".

Midsommar è un grande film, che fa del sublime la sua cifra estetica. E, del resto, tratta del resoconto d'una sublimazione. Notevolissima e riuscita, in questo senso, la scelta (e l'impresa) di realizzare un horror alla luce del sole, abbagliante. Gli elementi d'interesse e le chiavi di lettura sono tantissimi. Il film è un enorme giacimento di simboli da decifrare (quasi un linguaggio) e, in questo senso, può proporre qualcosa di nuovo ad ogni lettura. Non ho qui toccato, ad esempio, la questione della simbologia norrena. Regista-autore da tenere d'occhio. Esperienza della visione e tensione a livelli altissimi. 4/5

giovedì 20 agosto 2020

Il sacrificio del cervo sacro (Y. Lanthimos, 2017)

I film di Yorgos Lanthimos non lasciano mai indifferenti. Non fa certo eccezione Il sacrificio del cervo sacro, uscito nel 2017, una sorta d'ibridazione fra Teorema di Pasolini (1968) e Eyes wide shut di Kubrick (1999), anche se i riferimenti meta-cinematografici sono assai di più (De Palma, Friedkin, Tarkovskij e altri). Un’ibridazione non solo tematica, ma anche filosofica, sull’irruzione del desiderio adulto e delle sua forza devastatrice in un contesto borghese. Un tema, certo, non nuovo sul grande schermo e in letteratura.

Lanthimos rivolge la sua riflessione, che tocca anche altre questioni correlate, al momento del passaggio degli individui dalla fanciullezza all’adolescenza. Non è un dettaglio che i giovani protagonisti del film siano una ragazza che ha appena avuto la sua prima mestruazione (ricordate Carrie?) (Raffey Cassidy, nel ruolo di Kim) e un ragazzo alle prese con le sue prime polluzioni (Sunny Suljic, nel ruolo di Bob), entrambi figli di due affermati medici (Colin Farrell e Nicole Kidman). Sono loro che entrano nel labirinto dell’adolescenza e del successivo mondo adulto; un labirinto ch’è suggerito dai movimenti della macchina da presa, la quale sfrutta la profondità (ottenuta anche sfruttando delle disturbanti ottiche fisheye alla De Palma, oltre che i carrelli) a scapito della orizzontalità, e che a tratti ci riportano ad una sorta di punto d’osservazione paradossale, come in una tavola di Escher (cfr. la Fig. 1).

Fig. 1 - Prospettive escheriane

Kim e Bob stanno dunque per entrare in una nuova fase della vita, e questo passaggio comporta tutta una serie di traumi, simbolicamente evocati da fenomeni, malattie e mutazioni che s’abbattono sui loro corpi. Il mondo adulto non capisce. Neanche il giovane Martin (interpretato dal bravissimo Barry Keoghan), già sedicenne e dunque testimone del passaggio, una sorta di traghettatore, di Caronte dolente, può salvare l’innocenza dei ragazzi, i quali sono però ancora capaci di vedere l'altra parte del mondo (tema romantico per eccellenza, Erlebnis contro Erfahrung). Egli rimane una Cassandra inascoltata, un indovino senza credito, pur essendo il demiurgo della storia, testimone delle colpe degli adulti, del loro desiderio inappagato e inappagabile, delle loro pulsioni malamente sublimate (o consumate in "anestesia generale"); testimone persino del fallimento della scienza (medica, in questo caso). Comprendere una persona, la sua anima, una relazione, il senso e il destino va al di là delle analisi del sangue o del liquor cefalorachidiano, di un ECG, delle radiografie, delle risonanze magnetiche (il campionario è pressoché completo e ricorda cose viste negli horror di Friedkin).

Bob e Kim appaiono vittime del mondo adulto e di un destino che colpisce alla cieca e che non dipende dai talenti delle persone (significativo il colloquio del padre dei ragazzi col preside della scuola). Sono costretti a guardarlo il mondo adulto, ma con la conseguenza d'arrivare a farsi sanguinare gli occhi o d’imparare presto le retoriche seduttive e manipolatorie dei padri (impressionante il ragionamento del piccolo Bob rivolto al genitore, verso la fine del film). Non è prevista salvezza (cfr. la Fig. 2), neanche nell'apparentemente sicuro rifugio borghese (figurarsi!), e a dispetto dei riferimenti religiosi e letterari presi in prestito da regista e sceneggiatore (su tutti, l’Ifigenia in Àulide di Euripide, dalla quale deriva anche il riferimento al cervo).


Fig. 2 - Nessuna salvezza

Il sacrificio del cervo sacro è l’ennesimo gran film di Yorgos Lanthimos, che muove il suo sguardo catatonico e spaesato e dirige un pugno di grandi attori con l’efficacia e la sapienza del maestro consacrato. Il film, che ritorna in qualche modo ai temi di Dogtooth (2009), ne costituisce una sorta di slargo filosofico e sociologico, mettendo solo in parte sullo sfondo la chiave surreale. Attori tutti in grandissima forma e tensione narrativa costante per tutte le due ore del film. Commento sonoro doloroso e affilato come un coltello. Un film assassino e ateo da guardare senza fazzoletti.

domenica 12 aprile 2020

La vita negoziabile (L. Landero, 2018)

Una lettura godibilissima, sostenuta da una fantasia effervescente. Un racconto che mischia parecchi generi: dal giallo al feuilleton, fino alla storia curiosa dell'unico santo all'inferno: Garcinuño. Una variazione, sebbene non esplicitata da Luis Landero, sul tema della sincronicità junghiana ("Ignoravo che le cose importanti e decisive, quelle che attribuiamo pomposamente al destino o al bisogno, hanno quasi sempre origine da episodi insignificanti e persino ridicoli, di certo casuali", "In una frazione di secondo ci si può trasformare in una canaglia o in un santo"), che ispira un principio di vita che dà il titolo al romanzo: la negoziabilità dell'esistenza. Al centro, un non-luogo emblematico, attorno al quale ruotano molte delle vicende raccontate: il salone del parrucchiere ("Cosa sono i negozi dei parrucchieri se non piccole università popolari?"). Landero ci propone una riflessione su caso e destino alla fine cinica ("Ecco com'era il mondo, un imbroglio, un luogo ripugnante dove non c'era posto per la purezza", "La legge della sopravvivenza vince sugli imperativi etici") e rassegnata ("L'abitudine semplifica tutto e lo trasforma in qualcosa di piacevole", "Ci si gira e ci si rigira fino a trovare una posizione più o meno comoda. Tutto qui"), in cui svolgono un importante ruolo i segreti, le bugie, il silenzio, e dove non c'è probabilmente spazio per l'amore. Da leggere.

Naboer (P. Sletaune, 2005)

Naboer (Next door) (2005) di Pål Sletaune è un grande, claustrofobico, impressionante film norvegese sulla violenza di genere. Niente affatto banale, con un ritmo perfetto, un paio di sequenze da ricordare e un tocco di surrealismo, vince a mani basse il titolo di "filmissimo". Uno dei cinque film norvegesi vietati ai minori di 18 anni in patria. Una gemma nascosta, ma pericolosa.