Attraverso l’uso anaforico dell’espressione “sto pensando di”, vengono poste sul tavolo, nel corso d'un viaggio che non è solo fisico ma anche simbolico, tutta una serie di questioni che affollano la mente della protagonista (e non solo di lei), in un flusso di coscienza che ha la stessa nobiltà di quelli costruiti da Joyce. La matrice letteraria del film è, comunque, l'omonimo romanzo di Iain Reid del 2016. L’elemento in comune che contraddistingue tali questioni è l’esplorazione dell’esperienza del mondo, che è allo stesso tempo Erfahrung ed Erlebnis, come ci hanno insegnato i filosofi tedeschi. E allora nel film vediamo magistralmente, quasi miracolosamente, sovrapporsi numerosi piani: presente, passato e futuro, realtà e soggettività, spazi fisici e spazi mentali, fatti reali e fatti possibili o pensati, progetto e improvvisazione, caso e destino. Sto pensando di finirla qui è, per certi versi, un film “quantistico”. Certo, viene citata la "formula dell'amore" di Paul Dirac, ma soprattutto pare di vedere all'opera in modo plastico il principio d'indeterminazione di W.K. Heisenberg; il fatto, poi, che i due protagonisti principali del racconto siano due scienziati è più d'un indizio.
La messa in discussione della realtà che è centrale nel film sembra una filiazione del gigantesco dibattito che ha coinvolto, nel Novecento e oltre, almeno quattro discipline e i rispettivi livelli della realtà: fisica, neuroscienze, arte e filosofia. Il film ha quasi la forma d'un trattato scientifico: sembra d'intravederne abstract, citazioni, dati e nota metodologica. Perfino l'impact factor finale con attese da premio Nobel. Un film-saggio che denuncia, sulla falsariga dei lavori oggi fondamentali del neuroscienziato Antonio Damasio, l’"errore di Cartesio", la separazione tra corpo e mente. Questione esplorata anche nell'incredibile carteggio tra lo psicologo Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli e raccontata in termini divulgativi da Charles P. Snow nel suo pamphlet sulle due culture. Una dicotomia, tuttavia, che ne richiama altre e, tra queste, quella tra scienza e arte (sul tema, mi permetto di rimandare al documentatissimo saggio si Stefano Poggi, L'anima e il cristallo, il Mulino, 2014).
Lo splendido, spiazzante, imprevedibile finale ci mostra l'approdo contemporaneo di quel dibattito novecentesco, all'insegna della conciliazione proprio tra arte e scienza, che in fondo è, paradossalmente, tutta romantica (non era forse proprio Goethe uno scrittore-scienziato?), dopo la grande fatica d'aver dovuto mettere tra parentesi ogni certezza. Come scriveva John Lennon, “life is what happens to you while you’re busy making other plans”. Una fatica che ci ha disorientati, messi a disagio e fatto letteralmente paura, come in un horror. Perché questo è anche un film gotico contemporaneo (e qui potrei rimandare al saggio di Federico Boni sulla serie TV American Horror Story). Tra le righe, ad esempio, m'è parso d'intravedere un omaggio allo Shining kubrikiano, oltre a tanti altri (memorabile la discussione su Una Moglie di John Cassavetes, per certi versi un altro film sull'orrore borghese americano e le sue conseguenze psicologiche).
Quello di Kaufman potrebbe essere uno dei film, ma anche dei saggi, del secolo. Da proiettare nelle scuole di ogni ordine e grado, come si diceva una volta. Ci si potrebbe organizzare un corso monografico universitario post-disciplinare. Perché questo è cinema di grado superiore al secondo. Intanto, si può ammirare su Netflix.